Roma L’Occidente è ancora in grado di pensare se stesso? È capace di rispondere a un appello che dovrebbe essergli connaturato come quello alla libertà? Oppure è condannato a soccombere nell’autoritarismo, a rinunciare alla democrazia perché non è riuscito a comprendere la natura della sua missione?
A queste domande cerca di rispondere con il brillante pamphlet Contro Assange, oltre Assange (domani in edicola con il Giornale a 2,80 euro) Daniele Capezzone, tornato alle origini di intellettuale liberale. Lo scopo del breve saggio, infatti, è quello di circoscrivere il caso-Wikileaks alle sue naturali dimensioni sfatando i miti creati dall’isteria collettiva che ne ha accompagnato la triste vicenda.
Da un lato, infatti, si sono scatenati gli istinti punitivi contro colui che ha divulgato importanti segreti del dipartimento di Stato Usa.
Dall’altra parte, coloro che invece ne vogliono fare un’icona pop, un martire. Invece, secondo Capezzone, la posta in gioco è molto più alta di questo sterile dibattito: o l’Occidente, difendendo il modello deresponsabilizzante di Assange, accetta la propria capitolazione abbandonandosi a una deriva autoritaria oppure ritrova la capacità perduta di «inoculare nei Paesi autoritari il virus della libertà come necessario completamento di un’economia capitalistica».
Quello che a prima vista può apparire un cortocircuito molto ardito, tuttavia, lo si può osservare nella cronaca quotidiana proveniente dal Nord Africa. Quello che Assange e Wikileaks «spacciano» per un’ipotetica «operazione trasparenza» democratica si rivela, alla fine, il miglior salvacondotto per i regimi antidemocratici e i loro sostenitori. ciò non vale solo per la Libia di Gheddafi, per l’Egitto di Mubarak e la Tunisia di Ben Ali, ma soprattutto per il regime castrista cubano.
Il biondo giornalista australiano, infatti, «ha colpito al cuore la capacità dell’Occidente di difendere se stesso» e «ha compromesso la nostra futura possibilità di aiuto e sostegno ai dissidenti democratici» vanificando quegli sforzi sotterranei dell’amministrazione Bush che oggi rivelano la loro efficacia.
Ed è proprio da quella presunta «operazione trasparenza» di Wikileaks che Capezzone fonda la sua analisi per superare tutta una serie di luoghi comuni dei quali la nostra società e il senso comune rischiano di restare vittime inconsapevoli. Innanzitutto, la trasparenza, la massima ostensione, la pubblicità più luminosa di ciò che si ritiene venga deliberatamente nascosto non è democrazia. Al contrario, il massimo della pubblicità è il massimo della sorveglianza cioè della negazione della libertà come nel Panopticon di Jeremy Bentham, il carcere dove un unico guardiano controlla tutti detenuti senza poter essere visto.
E in questa parte del libro che si citano le tonnellate di intercettazioni contro Berlusconi come forma di «giacobinismo» moderno teso alla distruzione del premier con ogni mezzo.
Quello che Martin Heidegger definiva lo «sbilanciamento sulla visività» tipico della contemporaneità è, nell’analisi di Capezzone, il predominio della «versione ufficiale», della ridondanza e della ripetitività di un messaggio come giustificazione della sua verità intrinseca. L’inganno della Rete (e dunque di Wikileaks) è la legittimazione dell’errore.
Una circostanza che può avere tragiche conseguenze perché in una logica del genere, qualunque vicenda, qualunque figura, risulta facilmente devastabile. Come osservato dallo psicologo Jamshed Bharucha le nuove tecnologie stanno determinando una sorta di «sincronizzazione dei cervelli» che, se da un lato con le sue false verità rassicura le masse dall’angoscia, dall’altro lato scatena forme di violenza e di intolleranza nei confronti di ciò che si oppone a ciò che viene riconosciuto come vero.
E sono proprio queste minoranze violente a prendersi la scena politica (a dirlo è Tony Blair e non Silvio Berlusconi). Ora sta all’Occidente risolvere i suoi dubbi, pena la propria scomparsa rivendicando il principio di responsabilità (anche penale) dentro e fuori dalla Rete.
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