Così Benito Mussolini annunciò l'inizio dell'attacco allo Stato

Dopo un anno ad altissima tensione lo strumento paramilitare voluto dal Duce è indirizzato al colpo finale

Così Benito Mussolini annunciò l'inizio dell'attacco allo Stato

Pubblichiamo, per gentile concessione dell’editore Leg, uno stralcio del Diario 1922 di Italo Balbo che torna in libreria con la prefazione di Mimmo Franzinelli (e uno corposo apparato fotografico) a cent’anni dalla presa di potere fascista.

Il Duce è commosso. E stupito per la rapidità della marcia. Sorride. Con questi uomini non è difficile conquistare l'Italia. Sa che sono pronti a un suo cenno. Ogni gagliardetto rappresenta migliaia di spiriti intrepidi e di cuori fedeli.

Con Mussolini all'albergo. Oggi parla più che mai secco e deciso. Giudica arrivato il momento di parlar chiaro anche alla massa. Mi dice che bisogna bruciare le tappe. Chiarirà nel discorso la posizione dei Fasci verso la Monarchia, sulla quale giocano gli avversari. Mi domanda notizie delle legioni che si stanno costituendo. Lo rassicuro. In meno di un mese il lavoro sarà compiuto.

Intanto Pisenti raduna le squadre giunte a Udine. Passano sotto le finestre con le fanfare in testa. Si ode da lontano il brusio dell'enorme armata. Accompagno Mussolini, acclamato dalla voce delle moltitudini. Egli passa sotto un arco di centinaia di gagliardetti. Squilli. Silenzio religioso. Mussolini parla di fianco al piccolo tavolo. Il teatro è gremito. La sua voce sul principio è bassa, come in agguato. Poi il discorso si fa tagliente, incisivo. Passa sul suo viso l'onda del pensiero fulmineo. Gesti a scatti. Qualche volta si raggomitola su se stesso come a scavare la parola dall'interno del cuore: poi il pugno la porta in alto sulla persona eretta e la lancia alla moltitudine. L'uditorio è avvinto, travolto, affascinato. Cadono parole solenni, impegni definitivi, programmi di guerra, frasi che hanno un'importanza storica:

«Il nostro programma è semplice: vogliamo governare l'Italia. Ci si dice: programmi?. Ma di programmi ce ne sono anche troppi. Non sono i programmi di salvazione che mancano all'Italia. Sono gli uomini e la volontà... Oggi che l'Italia è fermentante di Vittorio Veneto, oggi che questa Italia è esuberante di vita, di slancio e di passione, questi uomini che sono abituati soprattutto alla mistificazione di ordine parlamentare, ci appaiono di statura non più adeguata all'altezza degli avvenimenti. E allora bisogna affrontare il problema: come sostituire questa classe politica che ha sempre, negli ultimi tempi, condotto una politica di abdicazione di fronte a quel fantoccio gonfio di vento che era il socialpussismo italiano. Io credo che la sostituzione si renda necessaria, e più sarà radicale, meglio sarà. Indubbiamente il Fascismo che domani prende sulle braccia la Nazione, quaranta milioni, anzi quarantasette milioni di italiani, si assume una tremenda responsabilità. Io penso che la Monarchia non ha alcun interesse ad osteggiare quella che ormai bisogna chiamare la rivoluzione fascista. Non è nel suo interesse perché se lo facesse diventerebbe subito avversaria, e se diventasse avversaria è certo che noi non potremmo risparmiarla perché sarebbe per noi una questione di vita o di morte. Chi può simpatizzare per noi non può ritirarsi nell'ombra. Deve rimanere nella luce. Bisogna avere il coraggio di essere monarchici. Perché noi siamo repubblicani? In certo senso perché vediamo un Monarca non sufficientemente Monarca. La Monarchia rappresenterebbe dunque la continuità storica della Nazione. Un compito bellissimo, un compito di una importanza storica incalcolabile».

Passano nel discorso di Mussolini, in fulmineo esame, i problemi del regime di domani: quelli esteri, quelli economici, quelli militari. È un programma di governo.

A un certo punto si volta di scatto verso di me e mi domanda, in un intervallo di applausi scroscianti: «Da quanto tempo parlo?».

Egli parla da 40 minuti, ma il discorso è così affascinante che gli rispondo con una bugia «Da venti minuti». E Mussolini prosegue trascinandosi il fremente uditorio. Quando finisce, le ovazioni per tre volte portano il suo nome alle stelle. Camicie nere in catena faticano per frenare l'impeto della folla che vuole accostare il Duce.

Gli chiedo brevemente: Siamo dunque alla vigilia?

Risponde: Alla vigilia.

(20 settembre 1922, Udine)

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