RomaQualcuno dice che è soprattutto per merito suo e della sua linea politica pragmatica e low profile; qualcun altro che è merito soprattutto del suo «fattore C», la fortuna di essersi trovato al posto giusto nel momento giusto, quello della sconfitta più clamorosa per il centrodestra.
Comunque sia, da lunedì scorso il segretario Pd Pier Luigi Bersani è, per la prima volta dalla sua elezione, un leader pienamente riconosciuto e non più solo il segretario (provvisorio) del Pd. La corsa verso Palazzo Chigi, che lui in verità prepara da mesi nella un po beffarda incredulità generale, ora appare molto più realistica. E lo conferma, ad esempio, il nervosismo di Nichi Vendola: lansia di mettere il proprio timbro sul vincitore-simbolo dei ballottaggi, Giuliano Pisapia, gli ha fatto fare uno scivolone a Milano. E ora il segretario del Pd teme molto di meno una eventuale competizione col governatore pugliese alle primarie (anche perché Di Pietro sembra pronto a dargli una mano, e minaccia di candidarsi anche lui per levare spazio al leader di Sel).
La vittoria di Bersani e il suo repentino rafforzamento nel partito non sono indolori, e a neanche una settimana dal voto già si capisce chi ne pagherà il prezzo. Del resto, bastava guardare le espressioni tirate di Veltroni e DAlema, vicini sotto il palco del segretario al Pantheon dopo la vittoria, per intuirlo: i due eterni rivali al vertice del Pds-Ds-Pd sono oggi la vecchia guardia, incalzata da una nuova classe dirigente che preme per emanciparsi dalla loro tutela. E che punta su Bersani (non nuovissimo, ma relativamente estraneo a quelle dinamiche) come traghettatore.
Ieri lo ha spiegato Zingaretti, presidente della provincia di Roma e probabile prossimo candidato sindaco di Roma: Bersani avrà dalla sua le nuove leve se si sottrarrà ai «caminetti» dei vecchi capi bastone e farà piazza pulita delle correnti, promuovendo una nuova classe dirigente. In soffitta dunque ex Ppi e ex Ds, Veltroni e DAlema, «schemini» e Meccano delle alleanze. Avanti i nuovi sindaci, che hanno vinto prima le primarie e poi il voto vero, e soprattutto intercettato un consenso trasversale che rende assai obsolete le appartenenze di partito: «Pd, Sel e Idv hanno dietro un elettorato molto unito», nota Zingaretti, e dunque ha poco senso continuare a tenere distinte le sigle. Così come è inutile inseguire il Terzo Polo: lanalisi del voto dimostra che in questa fase gli elettori centristi sono disposti a spostarsi verso sinistra indipendentemente dalle alleanze ufficiali e dai proclami dei suoi leader, se i candidati sono appetibili. E Bersani è convinto che, a livello nazionale, il suo nome potrebbe attirarli senza dover passare per patteggiamenti con Casini.
Del resto due sono i successi che in questi giorni Bersani più rivendica: aver capito che «bisognava incalzare la Lega» e tenerla sempre nel mirino, non in vista di improbabili alleanze (nonostante i pour parler con Maroni) ma perché lelettorato del Carroccio si è dimostrato per la prima volta espugnabile. È a Nord che il Pd cresce, Piero Fassino celebra: «I sette capoluoghi del Nord sono tutti nostri», e annuncia la creazione di un asse con gli altri sindaci settentrionali, da Pisapia a Merola. Laltro successo che Bersani rivendica è quello contro «lantipolitica» (Napoli a parte), con il rapido riassorbimento del fenomeno «grillino», i cui voti si sono riversati sugli uomini appoggiati dal Pd. La scenata isterica di un inviperito Grillo contro «Pisapippa» è la dimostrazione che il comico genovese ha accusato il colpo.
Ora si apre il duello più impegnativo per il novello San Giorgio del centrosinistra, quello contro il Drago numero 1, Berlusconi.
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