I riformisti hanno sempre avuto vita dura, perché il riformismo è ragionevole e faticoso, mentre il suo opposto, la demagogia, miete facili consensi e in questo modo accorcia la strada del successo. Fra lo zelota Barabba, rivoluzionario arruffapopolo, e il riformista Gesù, si sa come andò a finire quando a scegliere fu chiamata la folla.
Oggi le vittime sono assai meno illustri, ma non per questo meno significative. Fra la demagogia e il riformismo la folla referendaria sceglie senza incertezze la prima strada, e le vittime si chiamano Silvio Berlusconi e Pier Luigi Bersani. I leader del Pd e del Pdl avrebbero dovuto sfidare la demagogia primordiale dell’armata referendaria - i bambini ammalati di tumore, il Terzo mondo che muore di sete - non soltanto perché fino a ieri erano favorevoli alla ricerca per il nucleare sicuro e alla trasparenza nella gestione degli acquedotti, ma anche e soprattutto perché il dovere dei riformisti, a destra come a sinistra, è quello di modernizzare, innovare, sburocratizzare, liberalizzare.
Il fatto è che in Italia il merito dei problemi, delle scelte e delle decisioni non conta un bel nulla. Contano le tattiche, le strategie, le opportunità e gli opportunismi, l’interesse dei gruppi e le carriere dei singoli: e dev’essere per questo se la politica pesa sempre di meno, tanto nella percezione dei cittadini quanto nell’effettiva gestione del potere reale, che sempre più si sposta altrove, non importa se verso la grande finanza o la magistratura associata.
Prigionieri del proprio opportunismo, Pdl e Pd hanno alzato le braccia di fronte alla brezza referendaria, temendo che diventasse uno tsunami, e si sono semplicemente annullati come entità politiche autonome. Ciascuno a suo modo, s’intende. Con obiettivi e intenzioni diverse. Ma con un unico, desolante risultato: i riformisti, ancora una volta, perdono prima di tutto perché rinunciano a combattere.
Che cosa è infatti accaduto? Il governo ha sospeso il programma nucleare con un argomento ragionevole: l’emozione di Fukushima non consente di decidere serenamente su una questione strategica per lo sviluppo e per la qualità della vita del nostro futuro, e dunque è bene prendersi un po’ di tempo. La Cassazione, con una sentenza a dir poco discutibile, ha però confermato il referendum riformulando il quesito, e la Consulta ha bocciato il successivo ricorso del governo. Il Pdl aveva due strade davanti a sé: battersi come un leone per il «No», oppure denunciare l’imbroglio e boicottare il referendum contestandone l’irrazionalità e l’inconsistenza. Ha invece scelto, pilatescamente, di non prendere posizione.
Nel Pd le cose non vanno meglio, anzi. Bersani, quand’era ministro per lo Sviluppo economico nel secondo governo Prodi, fra una «lenzuolata» di liberalizzazioni e l’altra ebbe anche modo di siglare un accordo bilaterale con gli Stati Uniti per la ricerca nel nucleare civile. Oggi invece, e nonostante l’opinione di scienziati ed esperti autorevolissimi (da Umberto Veronesi a Chicco Testa), il segretario del Pd sceglie di accodarsi ai fondamentalisti e ai terroristi dell’apocalisse nucleare, e seppellisce in un sol colpo dieci anni di ragionevole e laica discussione.
Sull’acqua, se possibile, Pd e Pdl fanno una figura anche peggiore. Il decreto Ronchi, come tutti sanno, risponde ad una direttiva comunitaria che introduce, per ovvie ragioni di efficienza e di trasparenza, l’obbligo di un concorso pubblico per l’assegnazione della gestione di alcuni servizi, fra cui quelli idrici. È una misura elementare di liberalizzazione, applicata con buoni risultati in molte città e difesa con entusiasmo dai sindaci di centrodestra e di centrosinistra, il cui scopo è sprecare meno acqua e offrire un servizio migliore. Certo, qualcuno ci rimette: i portaborse e i parassiti che non potranno più farsi nominare dai politici di riferimento. Ma tutti gli altri ci guadagnano: imprenditori e cittadini. Con chi dovrebbero stare, allora, i riformisti e i liberali? Eppure il Pdl lascia anche in questo caso libertà di voto, e il Pd addirittura fa campagna per il «No», cioè contro i propri sindaci.
I motivi sono noti: Bersani spera di dare una spallata al governo, e non gl’importa nulla di buttare a mare l’identità riformista del Pd; Berlusconi, al contrario, si prepara ad uscire indenne da un’eventuale vittoria dei «Sì», e non si cura di rinunciare al programma liberale del Pdl. Buon per loro, forse: ma non certo per il Paese.
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