Simbolo autoproclamato della destra moderna e dialogante, Gianfranco Fini ripete che le riforme devono essere condivise. Ossia che devono sedersi al tavolo i cervelli più tolleranti di maggioranza e opposizione per raggiungere, nel più civile e garbato dei modi, un accordo che modernizzi il Paese con vantaggio di tutti. Non esplicita, ma in cuor suo auspica, che gli arredi del salone in cui si svolgeranno le sedute siano di pregio e non manchino gli argenti, che i cibi siano di qualità e serviti da paggi in polpe e che - last, non least - i riformatori indossino abiti scuri (incluso Di Pietro) e mai, anche nei momenti di tensione, mostrino la bava alla bocca (specie il Cav). E fin qui, ogni persona di buon gusto non può che essere d'accordo. Lo scenario idillico piace a destra e a sinistra. Direi che se le cose si prospettassero in questo modo l'educata posizione dell'onorevole Fini diverrebbe una deliziosa civetteria e una simpatica banalità. Ma la realtà è diversa.
Sarebbe, infatti, interessante sapere cosa - in caso di disaccordo tra i riformatori - suggerisce di fare il presidente della Camera. Ma qui, l'onorevole Fini si sottrae al confronto e sguscia via. Gianfranco ha, soprattutto nella odierna fase ecumenica in cui strizza l'occhio alla sinistra, la tendenza a prendere il toro per la coda anziché per le corna. È come con l'immigrazione. C'è un problema pratico di convivenza, di ordine pubblico, di sfruttamento del lavoro straniero e lui, anziché darsi da fare per risolverlo, propone il voto, la cittadinanza e astrattezze varie. Insomma, parla d'altro.
Lo stesso vale per le riforme. Le vuole condivise. D'accordo. Ma se le opinioni divergono e ciascuno, con arzigogoli e inghippi, resta sordo alle ragioni dell'altro? Ha il diritto o no la maggioranza di andare per conto proprio o bisogna considerare tassativo il principio della condivisione e rinunciare a tutto? Anziché scogliere il nodo, il portabandiera della destra moderna ripete «pace e bene» e condanna il Berlusca all'immobilismo e alla futura sconfitta elettorale. Ovvio che la sinistra tifi per lui. Altrettanto, che i suoi ex alleati ne diffidino. A ciò va aggiunto che Gianfranco è il meno accreditato a farsi portavoce di riforme bipartisan. Fu, infatti, lui a spazzare via l'unica occasione seria di riuscirci.
Era l'inizio del 1996 e il Polo, dopo il ribaltone di Natale 1994, si trovava in crisi nera. Il governo Dini, che aveva sostituito il primo Berlusconi mandato all'aria da Bossi, era arrivato al capolinea. O si andava a elezioni anticipate con lugubri pronostici per il centrodestra o si ricorreva a un ripiego.
Fu così che venne l'idea di un governo di tregua. Su questo erano d'accordo tutti: Oscar Luigi Scalfaro che temeva di dovere liquidare anzitempo la legislatura per la terza volta, dopo il 1992 e il 1994; il capo del Pds, Max D'Alema, e il Cav accomunati dalla stessa fifa di perdere le elezioni. Ci si accordò perciò per affidare ad Antonio Maccanico un governo di tutti che attuasse una profonda riforma istituzionale, necessaria per adattare la Costituzione al maggioritario introdotto dal referendum Segni qualche anno prima.
Il tentativo, con questa intesa scaturita dalla debolezza generale, nasceva sotto ottimi auspici. Ma dopo due settimane Maccanico gettò la spugna. A metterlo ko fu Fini. Tonino, questo il soprannome del presidente designato prima che glielo scippasse il noto pm, doveva conciliare due visioni simili con qualche sfumatura diversa: il presidenzialismo alla francese del centrodestra e uno più incerto e innominato del Pd. Un volpone come Maccanico, ex comunista, poi repubblicano, a lungo segretario generale della Camera, poteva farcela se avesse trovato un minimo di buona volontà.
Presentò una programma di massima per lavorarci su. Proponeva di trasformare la Repubblica parlamentare in presidenziale - il cuore della riforma - senza però riferirsi esplicitamente al sistema francese per non irrigidire D'Alema che voleva rifletterci. Il Cav era consenziente e appoggiava la bozza. Idem, il capo diessino. Ma Gianfranco fece il pignolo, pitipì pitipì, e dichiarò che o si diceva nero su bianco che il modello era Chirac o non ci stava.
Ci si incagliò per giorni, logorando i buoni propositi. La mattina, Maccanico dichiarava ottimista: «Riscontro una larga adesione». La sera, dopo essere stato tempestato di nuove obiezioni da destramoderna, veniva in Tv col muso lungo dicendo: «Non ci sono le condizioni». Così fino allo sfinimento.
Il Berlusca, che aveva il tarlo in casa, disse blandamente per salvare capra e cavoli: «Fini ha quella passione per il dettaglio politico che io non ho. Gli portano il foglio d'agenzia con l'ultima dichiarazione di Tizio e lui si emoziona». E aggiunse, finalmente perfido, ma incapace di frenare la pittima: «Gianfranco è bravissimo nella dialettica quotidiana, io detesto le battute del giorno per giorno. Per me conta la Storia». Uscita di sapore napoleonico ma fondamentalmente seria perché sottintendeva quanto fosse più importante arrivare alla riforma presidenziale che attardarsi sui capriccetti dell'alleato.
Erano anche tempi strani quelli. Fini era circondato dall'alone del professionista politico mentre il Berlusca era considerato un parvenu. In un sondaggio dell'epoca, commissionato dal Cav, uno rispose cosi: «Berlusconi governa ma il cervello è Fini». Oggi sarebbe una barzelletta.
Maccanico andò incontro a destramoderna fino allo spasimo. Finché, non trovando più nulla da ridire sul presidenzialismo, Fini sfoderò un estremo cavillo: un governo tecnico umilia la politica e dà voce ai potentati economici. E si attaccò a due episodi. Una visita dell'industriale De Benedetti al presidente incaricato e il sostegno a Maccanico di Lorenzo Necci, patron delle ferrovie.
Sulla stessa lunghezza d'onda si mise Pierferdy Casini. Cominciò anche lui, non ancora imparentato col costruttore Caltagirone, a stracciarsi le vesti sui pericoli dei poteri forti. Così, in un pugno di giorni, il governo delle riforme condivise andò a ramengo. Seguirono elezioni anticipate. Il Cav prese una batosta. Fini e Casini, peggio. Vinse Prodi e il centrodestra restò in purgatorio per un quinquennio (1996-2001).
Berlusconi, ammaestrato dalla lucidità dimostrata dai due compari, esclamò: «Mai fidarsi dei professionisti della politica». Giudizio che ha poi applicato alla lettera.
Il giovanotto sbagliava. Ma tre lustri dopo è ancora lì che ci prova.
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