Foedus, in latino, vuol dire «patto»: la radice del termine federalismo deriva da lì, per significare che una federazione è «un accordo liberamente e volontariamente sottoscritto da soggetti che aderiscono spontaneamente». Lo spirito autentico di una federazione di Stati viene dunque da un presupposto estraneo alla nomea negativa che accompagna i movimenti secessionisti dEuropa. E cioè che «per federarsi è necessario preliminarmente essere liberi e poter disporre di sé».
È questa la cornice che Piercamillo Falasca e Carlo Lottieri hanno disegnato intorno al loro recente pamphlet Come il federalismo fiscale può salvare il Mezzogiorno (Rubbettino, pagg. 215, euro 14) che intende proporre un radicale ripensamento della finanza pubblica in chiave federalista, con lobiettivo di salvare e rilanciare il Sud. E nella convinzione che senza il Sud non sia possibile, per lItalia, rimanere ancorati allOccidente.
Lottieri e Falasca, menti liberali, hanno scritto il libriccino con grande rigore e nessuna demagogia, attualizzando nel contesto delleconomia globale in cui viviamo un tema - quello delle spinte antistataliste in ambito fiscale - trattato sin dalla fine dell800, passando dal pensiero di Gaetano Salvemini e arrivando fino a quello di Gianfranco Miglio nella fine del secolo scorso. E da allora cavalcato dalla Lega, ancorché senza quel rigore e quella lucidità, presenti nel pamphlet, che forse permetterebbero al tema di decollare politicamente. Ma questa è unaltra storia.
Il punto di partenza è la confutazione del meridionalismo dominante che vede il federalismo come la minaccia di esasperare le differenze con la ricchezza delle regioni del Nord le quali, libere dagli oneri che lo Stato centrale impone per sostenere il Mezzogiorno, potrebbero finalmente ridurre le imposte. Mentre quelle del Sud sarebbero costrette, giocoforza, ad aumentarle. Unidea che trova fondamento razionale, fra laltro, in un dato su tutti: un cittadino lombardo contribuisce con 2,45 euro a ogni euro di spesa pubblica, mentre a un calabrese bastano 27 centesimi per avere le stesse prestazioni. Perché i meridionali dovrebbero rinunciare a tali benefici? Secondo gli autori per garantire a figli e nipoti un futuro. Come? Attraverso la creazione di uneconomia di mercato, oggi assente.
La premessa, filosofica prima che politica, ben presente nelle teorie di Miglio, è che lo Stato unitario, per sua costituzione e definizione, tende a imporre le istituzioni dallalto, e come tale si propone, già in partenza, come inefficiente, perché inadatto a ospitare le libere espressioni del mercato. A maggior ragione ciò è vero per lItalia, unificata da meno di 150 anni sotto i Savoia nonostante la sua secolare natura policentrica. Il che ha costretto il Paese non soltanto «a negare se stesso, nel momento in cui il nazionalismo ottocentesco ha costruito una fittizia unità cementata essenzialmente dalla guerra», ma ha pure creato «un ordine legale destinato a farsi assai presto oppressivo». Così lItalia degli ultimi decenni del XIX secolo sarebbe uno «Stato che si volle liberale, ma che raramente seppe esserlo davvero». E sul mito dellItalia unita si vive tutto il successivo secolo breve, passando da guerre e dittatura alla democrazia. Ma dimenticando il difetto di fondo. Che, in termini economici e di diritto, si traduce in un Parlamento che legifera per tutto il Paese, incurante delle diversità geografiche e culturali. Con imposte dirette e indirette che non tengono conto di tali diversità, alimentando la burocrazia centrale e moltiplicando le tensioni periferiche.
E sbaglia Roberto Saviano, secondo gli autori, quando in Gomorra sottintende un parallelo tra camorra e capitalismo, legati dal minimo comun denominatore del «fare i soldi». Capitalismo e mercato sono lantitesi della camorra. Sono la libertà di acquistare o vendere beni e servizi «da» o «a chi» si vuole. Niente a che vedere con estorsioni, violenze, distribuzioni coatte. Per ridar vita al Mezzogiorno, ridurre la povertà, e sconfiggere mafia a camorra bisogna dunque partire dal mercato: creare le condizioni per il suo sviluppo. Va da sé che in questa chiave la politica degli aiuti di Stato, dei trasferimenti agli enti locali, è quanto di più dannoso si possa immaginare.
Il modello alternativo è quello del mercato, appunto, vale a dire della competizione. Competizione fra territori e istituzioni. Nei dati dellesempio più vicino a noi - quello della Svizzera - si legge la forza che piccole autonomie confinanti (ma federate) hanno nellattrarre le imprese giocando sulla convenienza fiscale. LIrlanda, che nel 95 mostrava un reddito pro-capite di 17.957 dollari, contro i 21.161 dellItalia, dopo 10 anni di riforme fiscali liberali si è ritrovata, nel 2006, a quota 40.716, contro i nostri 28.866. La «tigre celtica», terra dimenticata come il nostro Sud, ancorché ben più inospitale, ha fatto leva, in definitiva, sulla competizione fiscale: dapprima ha drasticamente abbassato le tasse, creando per le imprese zone quasi «free», con limposta sugli utili variabile tra il 10 e il 25 per cento. Poi, sullonda dei successi anche occupazionali, il primo ministro Charlie McCreevy nel 97 ha varato una riforma fiscale per abbassare le tasse dal 32 al 12,5 per cento su ogni reddito commerciale. In quel clima è nata, a Dublino, unimpresa come Ryanair, destinata a cambiare le abitudini di viaggio dellintero continente.
«Federalismo competitivo». È questo il modello che incontra ostacoli culturali prima ancora che economici, ma che rappresenta lunica strada per il Mezzogiorno. Al centro del modello cè limprenditore, motore unico dello sviluppo. Intorno a lui le condizioni per operare in uneconomia libera.
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