Così il partito dei giudici scavalca il parlamento

Il procuratore di Siracusa ignora l’accordo con la Libia sui respingimenti: indagati un intero equipaggio di finanzieri e persino il Viminale. È solo l’ultimo siluro della magistratura che da quindici anni esercita il suo potere di veto contro il potere legislativo

Così il partito dei giudici scavalca il parlamento

Milano - I giudici contro il legislatore. I giudici al posto del legislatore. I giudici baricentro del Paese. L’ultimo caso arriva dall’estremo lembo d’Italia: Siracusa. Il procuratore Ugo Rossi mette sotto inchiesta il comandante della motovedetta che la scorsa estate aveva fermato in acque internazionali un barcone con settantacinque clandestini e l’aveva riaccompagnato al punto di partenza, in Libia. Il Giornale racconta la storia: il comandante credeva di applicare la legge, invece la Procura la pensa diversamente. Rossi legge e rilancia al Tg1: «Il comandante doveva riportare gli immigrati in un porto italiano dove c’è l’apposita commissione che valuta chi ha diritto a chiedere l’asilo». E l’accordo, il sofferto accordo raggiunto con la Libia per riconsegnare i barconi bloccati lontano dalle nostre coste? Per Rossi non vale. Anzi, si scopre che oltre al comandante sono indagati, per violenza privata e violazione delle norme sull’immigrazione, «tutte le persone che hanno avuto un ruolo nella vicenda fino ai funzionari del ministero dell’Interno».

Ma sì, le toghe cancellano, riscrivono, correggono e addirittura creano le norme. A volte strillano, a volte usano la penna, il risultato è sempre lo stesso: quel che il governo di turno, di destra ma non solo, ha elaborato viene impacchettato e spedito in soffitta. È una vecchia storia che si ripete. Il 7 marzo ’93 è Francesco Saverio Borrelli, allora uno degli uomini più potenti d’Italia, a tuonare contro il decreto Conso, il cosiddetto colpo di spugna. Il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro raccoglie il grido di dolore e non firma. Il decreto finisce nel cestino. Il 14 luglio ’94 è il pool, ancora guidato da Antonio Di Pietro, a mobilitarsi: Di Pietro parla in tv contro il decreto Biondi, alias salvaladri, e anche il testo scritto dal Guardasigilli del governo Berlusconi si arena e affonda.

Potere di interdizione ma non solo. Il Parlamento sforna la legge sulle rogatorie? L’intramontabile Borrelli è ormai a un passo dalla pensione, ma è ancora in sella e incita i colleghi all’attacco: «Neutralizzeremo i guasti della legge», come fosse stata scritta da dilettanti allo sbaraglio.

È sempre stato così. Una parte della magistratura è capace di sedurre pezzi importanti dell’opinione pubblica e se ne serve come di un ariete per colpire il Palazzo. Nel 2003 il Parlamento vara uno scudo che è una coperta corta, ma è pur sempre una protezione per le più alte cariche dello Stato. Del resto dopo la ventata giustizialista dei primi anni Novanta, l’immunità non esiste più e il Lodo Schifani è meglio di niente. Ma la magistratura non lo digerisce e dai tribunali di tutta Italia piovono eccezioni di legittimità costituzionale. Sia chiaro, lo strumento è corretto, ma il risultato è evidente: il Parlamento fa le leggi che il partito dei giudici - magistratura ordinaria più Corte costituzionale - tira giù. Così il Lodo Schifani viene fatto a pezzi; la maggioranza di centrodestra incassa il colpo e cinque anni dopo ripresenta una versione aggiornata del Lodo che questa volta si chiama Alfano e riguarda le prime quattro cariche dello Stato. Il Parlamento ha davanti la sentenza della Consulta, scrive la norma quasi sotto dettatura del Quirinale, corregge il testo qua e là. Ma i meccanismi e i rapporti di forza non sono cambiati: i giudici portano la legge alla Consulta e la Consulta l’abbatte di nuovo rimettendo in moto la ruota dei processi contro il premier. I parlamentari, almeno quelli della maggioranza, si sentono presi in giro: nel 2004 la Corte aveva mosso autorevoli obiezioni alla norma, ma aveva lasciato intendere che si potesse procedere per via ordinaria. Invece no, cinque anni sono stati buttai via. Si deve ricominciare daccapo.
Il Parlamento deve pazientare, le toghe no. Quali sono i confini della famiglia? A Montecitorio si discute sulle convivenze civili, la seconda sezione della Cassazione sale in cattedra e ridisegna il perimetro: «Ogni consorzio di persone fra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza per un apprezzabile periodo di tempo». Dunque, per famiglia si deve intendere l’unione di due studenti, o di una coppia omosessuale o di una badante e un anziano. È solo un esempio. La legge sul testamento biologico non vuole arrivare e allora è la Cassazione a tagliare il nodo, spinosissimo, del caso Englaro. Il papà di Eluana vuole troncare l’agonia della ragazza e la Suprema corte apre un varco nella norma: il sondino può essere staccato, in caso di coma irreversibile, se quella persona «aveva espresso la volontà di farla finita». Ma se non ha mai detto nulla? Ecco l’escamotage che fa morire Eluana: sono sufficienti, in mancanza di meglio, «lo stile di vita e i convincimenti». Come dire, tutto e niente. È la fenditura attraverso cui viene staccato il sondino.

E di buchi i magistrati ne aprono in continuazione nei muri della norma. Il bello è che dicono tutto e il contrario di tutto. La solita Cassazione ci spiega che un immigrato omosessuale non può essere espulso dall’Italia se nel suo Paese rischia la galera. Prego, si accomodi. Ma il Tribunale di Milano, incredibilmente, nega l’asilo, che tanti giudici fanno la gara a concedere, a un medico cubano che aveva bussato alle nostre porte, invocando l’articolo 10 della Costituzione: quello che appunto dà l’asilo politico allo straniero «al quale nel suo Paese sia impedito l’effettivo esercizio delle libertà democratiche». Cuba non è forse una dittatura? Sarà, ma per il Tribunale di Milano non conta: conta di più il diritto dei cubani ad essere curati da quel medico. Dunque fuori, se ne vada. Piero Ostellino nel suo libro Lo stato canaglia parla di quella sentenza come di «una mostruosità logica, giuridica e politica».

Le sentenze creative sulla Bossi-Fini e sulla recente legge sulla clandestinità si sprecano. Un giudice di pace di Genova ha ritenuto di non dover procedere contro un clandestino perché risultava incensurato. E un suo collega di Firenze ha sostituito l’espulsione con una multa di 5mila euro.

A Milano, invece un giovane haitiano che doveva andarsene ed è rimasto qua è stata assolto. Il motivo? Non aveva i soldi per il biglietto aereo. E si potrebbe proseguire a lungo, fino a comporre una vera e propria mappa del boicottaggio della norma. Quel che non fa l’opposizione, fanno i giudici.

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