Alberto Vincenzo Vaccari, lo Sherlock Holmes dei tarli, l’unico italiano capace di distinguere a colpo d’occhio un trumeau antico da una volgare imitazione, non poteva che nascere a Bovolone, grosso centro della Bassa veronese all’origine della mia presenza su queste pagine. Nel 1984 scoprii che la capitale del mobile in stile, ormai incapace di distinguere il vero dal falso, era riuscita nell’impresa di dedicare una via alla memoria di Alberto Moravia, benché vivente: il Consiglio comunale l’aveva scambiato per un martire di Cefalonia. Vittorio Feltri elogiò l’«acuto cronista» di provincia in un articolo sul Corriere della Sera, donde la nostra amicizia e l’assunzione al Giornale molti anni dopo.
Niente a confronto con l’esperienza che il perito più temuto dai contraffattori visse in quello stesso periodo al fianco del padre Liberale, falegname all’epoca ormai ottantenne. Di mezzo c’era Giuseppe Maggiolini, l’ebanista milanese nato nel 1738 che lavorò anche per Napoleone, massimo interprete del gusto neoclassico, tanto che da lui prese nome il mobile chiamato maggiolino. Per rendere l’idea: un suo cofanetto intarsiato che i Musei civici di Milano dovevano prestare al Louvre per una rassegna fu valutato dieci anni fa dallo stesso Vaccari, ai fini della polizza assicurativa, 2 miliardi di lire. Racconta lo studioso: «Giorgio Polvara, un designer che scriveva per Antiquariato, la rivista di Giorgio Mondadori, ci chiese d’accompagnarlo a una mostra per visionare una coppia di comò che un importante antiquario aveva comprato da una delle più famose case d’asta londinesi. Gli expertise attribuivano i due cassettoni al Maggiolini. Appena vede in lontananza i comò, mio padre sbotta in dialetto: “Mah! Del Maggiolini quei lì? Me par d’averli fati mi”. Polvara basito: “Che cosa dice, Vaccari! Starà scherzando, spero”. E papà: “No, no. Provi a farli rovesciare a gambe in su. Se sul fondo troverà degli spicchi d’aglio attaccati con la colla a caldo, significa che li ho fatti io, insieme con Giuseppe Merlin”. L’antiquario accetta malvolentieri di capovolgerli: c’era l’aglio. Mio padre e Merlin l’avevano messo convinti che potesse servire a tenere lontano i tarli. Immagini la faccia dell’espositore. Per quelle due copie perfette, costruite negli Anni 30, chiedeva 600 milioni di lire, oltre 700.000 euro di oggi».
Merlin, artigiano con bottega ad Asparetto, fra Bovolone e Cerea, è considerato l’iniziatore dell’industria del mobile in stile. Camilla Cederna, nel libro Casa nostra, scrive che a partire dal 1928 «fu aiutato e protetto dall’onorevole fascista Bruno Bresciani, cultore d’arte, amante di castelli medievali e collezionista di mobili antichi autentici». E ricorda il grande spavento provato durante la guerra da un vecchio che passava davanti alla bottega dell’eclettico falegname: «Udì un susseguirsi di schioppettate. Pensò a un rastrellamento tedesco e si buttò nell’erba. Era invece la famiglia Merlin che impallinava i mobili per farli apparire tarlati». Scuote la testa Vaccari: «Una leggenda metropolitana. Semmai i buchi si fanno con i punteruoli».
Sarà anche un caso, ma dopo oltre mille conferenze tenute in giro per l’Italia su questi argomenti, qual è l’unica località che non ha mai invitato a parlare Vaccari? Indovinato: Bovolone. Paesotto alquanto permaloso, se è vero che nel 1981 l’onorevole dc Giuseppe Costamagna scomodò il presidente del Consiglio e i ministri dell’Interno, della Difesa, delle Poste e delle Partecipazioni statali perché censurassero la Rai, colpevole d’aver consentito a Ugo Tognazzi di presentarsi travestito da San Giuseppe, con la sega da falegname in mano, nella trasmissione Telepatria international di Renzo Arbore e di dire che veniva «da Bobbolone, provincia di Verona». «Un omaggio», ride Vaccari. «L’attore era molto legato a Bovolone e a Bruno Piombini, suo fornitore di fiducia».
Diplomato in restauro e antiquariato all’Accademia d’arte e design Leonetto Cappiello di Firenze, restauratore accreditato presso la Soprintendenza ai Beni storici e artistici del Veneto, autore del manuale Dentro il mobile edito dalla Zanichelli, Vaccari, 54 anni, è una presenza fissa nei salotti televisivi – da Mi manda Lubrano su Raitre a Candido su Tmc, da Unomattina sabato e domenica su Raiuno a Mattina in famiglia su Raidue – ma anche nelle aule di tribunale, come consulente tecnico d’ufficio, quando i giudici non sanno che pesci pigliare. Entro ottobre dovrà periziare in un sol colpo la bellezza di otto container zeppi di mobili antichi.
A chi appartengono?
«Erano di un nobile che portò a spasso nella sua tenuta l’erede al trono d’Inghilterra. I due figli, incapaci di dividersi l’eredità da buoni fratelli, sono finiti in causa».
Compito non facile per lei.
«Sono anche ausiliario di polizia giudiziaria. Un giorno mi convoca un pubblico ministero di Pordenone. Indagava su uno stand sequestrato a una mostra d’antiquariato. Di primo acchito sembrava roba nuova, invece erano mobili francesi dell’800 restaurati male, con le levigatrici elettriche. Chiedo ai carabinieri: ma perché li avete confiscati? “Eh, professore, perché abbiamo studiato. Non lo vede? Mancano i segni dell’usura, gli spigoli smussati, le macchie d’inchiostro...”. Scusate tanto, ma su quale testo avete studiato?, ribatto io. “Su quello di Alberto Vincenzo Vaccari”. Da sprofondarsi».
Non è presuntuoso a definirsi «lo storico del mobile italiano»?
«Sì, ma che posso farci? È la verità».
Non ha rivali?
«Ci sarebbe Alvar González-Palacios, un critico d’arte di origini cubane che ha collaborato con Federico Zeri. Ma alla conoscenza della storia io unisco quella dei materiali: legno, chiodi, colle, vernici. Sono nato in bottega, fin dalle elementari ho sempre fatto i compiti sul bancone della falegnameria, durante le vacanze scolastiche aiutavo mio padre. Ho restaurato con queste mani un cassone di casa Petrarca e la sacrestia di Santa Maria in Organo, opera del monaco olivetano fra Giovanni da Verona, forse il maggior intarsiatore di tutti i tempi. Papa Leone X gli commissionò i rivestimenti lignei per la Stanza della Segnatura in Vaticano che contiene i più famosi affreschi di Raffaello. Purtroppo le tarsie furono bruciate dai lanzichenecchi durante il sacco di Roma del 1527».
González-Palacios ha scritto molti libri.
«Nel frattempo io compilavo l’Enciclopedia del mobile italiano. È pronta, devo solo decidere a quale editore consegnarla. Dentro ci sono trent’anni di lavoro. Ricostruisco la storia del mobile città per città, fino ai centri produttivi più piccoli, come Bovolone, Cerea, Asolo, Bassano, Chiavari, Saluzzo. Per ogni località analizzo gli stilemi delle varie epoche. Solo a Milano, a partire dal ’600 e fino all’arrivo degli Austriaci, si contano sette diversi tipi di gambe dei mobili tra barocchetto e rococò».
Perché non è diventato falegname?
«Mi mancava qualcosa. Volevo capire che cosa stavo facendo. Perciò ho cominciato a studiare».
Che differenza c’è fra mobile d’arte e mobile in stile?
«Il mobile d’arte è uno sguardo al passato ma con inventiva. Il mobile in stile è la copia del passato».
E come si riconosce un mobile antico vero?
«La differenza tra vero e falso è la stessa che passa tra dire e non dire. Se il venditore tace, nel 50% dei casi l’acquirente inesperto rimedia una fregatura. Ci sono in giro copie fatte alla perfezione con legni vecchi. Da due banchi da chiesa si può ricavare un tavolo fratino del ’600, così chiamato perché stava nel refettorio dei frati, indistinguibile da uno autentico».
L’incompetente non ha difesa.
«Deve chiedere al venditore che gli spieghi tutto dell’oggetto su cui ha messo gli occhi. Alla fine della descrizione, dopo aver trattato il prezzo, può pretendere che gli siano messe per iscritto le caratteristiche del mobile. A quel punto molti antiquari si rifiutano di farlo. Ovvio: mentono. Se invece rilasciano un’attestazione con foto, quella diventa una prova di autenticità anche nelle aule giudiziarie, in caso di dubbi».
Che trucchi si usano per ottenere un mobile anticato?
«Infiniti. Certi falsificatori arrivano a mettere le assi di legname tenero, tipo abete, pino e frassino, come pavimentazione nei pollai. Le galline raspano, l’urina fa il resto. Ma basta incidere la superficie del legno per accorgersi che dentro è nuovo. A volte sono stato costretto a far ricorso alla datazione spettroscopica presso il laboratorio del Museo d’arte e scienza fondato a Milano da Gottfried Matthaes, un fisico tedesco. Certo, se sono stati utilizzati legni vecchi, le analisi di Matthaes servono a ben poco».
E a quel punto?
«Subentra l’esperienza. Un incastro fatto con macchinari elettrici sarà sempre irrimediabilmente diverso da uno fatto a mano. Oggi si usano le colle viniliche. Nell’antichità esistevano solo colle a caldo ottenute da pesce, bue e coniglio. I chiodi venivano forgiati sull’incudine a uno a uno: non ce n’erano due uguali fra loro e ogni epoca ha avuto i suoi».
È vero che qui nella Bassa seppellivano i mobili per invecchiarli?
«No. Ma c’era chi seppelliva per un certo periodo le ferramenta: maniglie, pomelli, cerniere, serrature. Poi versava sulla terra abbondante acido muriatico. In tal modo l’ottone arrugginiva in fretta e prendeva la caratteristica colorazione verdastra. Per rendere vetusto un mobile lo si frusta con una catena, in modo da provocare delle ammaccature, o lo si bruciacchia col ferro da stiro».
Come va l’industria del mobile d’arte?
«Va scomparendo. In passato qui c’erano circa 3.000 botteghe artigiane, per lo più piccole, con due o tre falegnami. Stanno chiudendo una dopo l’altra. Oggi sono la metà».
Come mai?
«Poca innovazione, scarsa cultura, insensibilità politica. Basti pensare che il Centro professionale di ebanisteria di Bovolone, passato dalla Regione Veneto alla Provincia, quest’anno ha avuto solo otto iscritti. Un tempo era una delle poche scuole del mobile in Italia. Ora vorrebbero addirittura accorparla a un istituto meccanico, snaturandone la specificità. Un delitto. Ho lanciato una sfida agli enti pubblici: affidatemi per tre anni la scuola con pieni poteri, senza stanziare un solo euro in più, e io ve la rivitalizzo. Se fallisco mi mandate via con un calcione nel sedere e nota di demerito a vita».
Hanno raccolto la sfida?
«Ma le pare? Silenzio di tomba. Ho appena scritto persino a Giorgio Napolitano».
Per dirgli che cosa?
«Le pare normale, signor presidente della Repubblica, che la televisione di Stato si occupi solo di cibo, con cuochi che spadellano da mattina a sera, e non dedichi neppure un quarto d’ora all’artigianato? Sono trent’anni esatti che la Bbc inglese trasmette Antiques roadshow, un programma di 50 minuti che parla di antiquariato e restauro ed è stato esportato negli Usa, in Canada, in Olanda, in Svezia. Come possiamo pretendere che i giovani s’appassionino alla storia e alla creatività? Stiamo perdendo la nostra identità nazionale. Abbiamo cresciuto una generazione da Ikea».
Eppure non si sono mai visti in Tv così tanti spot di modelle discinte che stampano baci col rossetto su mobili antichi fabbricati l’altro ieri.
«Lo so. Alcuni di questi produttori mi hanno spiegato che con tre mesi di pubblicità il loro fatturato sale da 10 a 40 milioni di euro. Appena smettono, ritorna a 10. Un’ulteriore dimostrazione che il messaggio televisivo è importante. Del resto è solo grazie alla Tv che sono riuscito a smascherare in diretta una falsa credenza gotica, ritenuta vecchia di cinque secoli, esposta al Museo Bardini di Firenze. L’aveva fatta costruire il fondatore Stefano Bardini, un antiquario morto nel 1922, riadattando un badalone, un grande leggio da chiesa. Un’altra volta a Mi manda Lubrano ho dimostrato che un secrétaire acquistato da un triestino a una televendita era falso, nonostante Vittorio Sgarbi sostenesse il contrario».
Da che cosa l’ha capito?
«Da un “1860” posticcio che il falsario aveva ingenuamente scritto a matita all’interno per retrodatare il mobile. Solo che l’anno era stato tracciato nel punto meno adatto, cioè dove scorreva un cassetto. Con più di un secolo di sfregamento, la data si sarebbe dovuta cancellare. Il giorno dopo Sgarbi ha chiamato Antonio Lubrano dichiarandosi d’accordo con me: “Mi sono sbagliato”».
Una bella soddisfazione.
«Abbiamo insegnato entrambi alla Domus Aurea, una scuola d’antiquariato itinerante. Fra i docenti c’era anche Sergio Corradeschi, il consulente di fiducia della famiglia Berlusconi. Daniela Santanchè è stata mia allieva. Ricordo la prima lezione all’hotel Duomo: c’era la crema di Milano, sembrava di stare a una sfilata di Armani, e io invece m’ero presentato in jeans. Appena tornato a casa, corsi a comprarmi un abito blu. Per l’imbarazzo quella sera commisi una gaffe imperdonabile. Illustrando una delle peculiarità del Rinascimento, la prospettiva, citai il punto di fuga. Non so come, mi scappò un’altra parola di due sillabe».
Se Napolitano le dà udienza, magari lei scopre qualche mobile taroccato anche al Quirinale.
«Ci sono già stato in visita al Quirinale. E ho visto solo arredi autentici, a cominciare dai mobili settecenteschi di Pietro Piffetti, l’ebanista dei Savoia che fece la boiserie della cappella privata del re intarsiata in avorio, e dai seggioloni di Andrea Brustolon, scultore di origine bellunese vissuto tra ’600 e ’700, che fu definito da Molière “il Michelangelo del legno”».
Ma presto gli ambientalisti ci costringeranno a comprare credenze in plastica per impedire il disboscamento dell’Amazzonia.
«Basta fare come in Francia, dove per ogni albero tagliato se ne deve piantare uno nuovo.
(380. Continua)
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