Che il calcio italiano attraversi una crisi profonda, di natura strutturale, lo urlano le cifre: in dieci anni, dal 1998 al 2007, la Serie A ha collezionato due miliardi di debiti mentre la B, bontà sua, s’è fermata alla metà. In assoluto 3 miliardi di rosso, il colore che più si addice a questo mondo. Solo una volta, nel 2000, il risultato netto d’esercizio è stato in attivo di 34,7 milioni. Per il resto segni negativi in entrambe le serie. E pensare che la B sopravvive a stento grazie alle sovvenzioni della A: un’anomalia in ambito non solo europeo, ma mondiale.
In disavanzo anche i conti della Liga spagnola e della Premier league inglese. Per questo il presidente dell’Uefa, l’ex juventino Michel Platini, s’è posto l’obiettivo di rimettere a posto i conti nei prossimi tre anni con la speranza di adeguare le uscite alle entrate e di moralizzare l’ambiente. «Se regoli i bilanci, arriveranno più investitori», la sua chiosa.
In Italia il dissesto ha preso corpo in misura drammatica sotto i governi di centrosinistra, se non di sinistra pura, capaci di approvare e legittimare leggi gradite solo ai grandi club. Nel 1996 arrivò il riconoscimento dello scopo di lucro che cambiò fisionomia alla disciplina delle società professionistiche, regolate fino a quel momento dalla famosa legge 91 del marzo 1981. A fare da spartiacque il decreto legge n. 485 del 20 settembre, successivamente convertito in legge n. 586 del 18 novembre, che ebbe come principale sponsor e mentore l’allora vicepresidente del Consiglio con delega allo sport, Walter Veltroni. Il premier era Prodi, alla sua prima esperienza. Il provvedimento cancellò l’obbligo di reinvestire gli utili nell’attività sportiva. Caduto questo diaframma, conquistato lo scopo di lucro, i club pensarono di avere risolto i loro problemi esistenziali divenendo a ogni effetto società di capitali. Invece i debiti - che già allora pesanti, 104,8 miliardi di vecchie lire in A, 38,9 in B e 66,7 in C - non accennarono a diminuire. Anzi. La finalità lucrativa aprì la strada alla quotazione in Borsa, ferocemente contestata dall’attuale vicepresidente del Cio, Mario Pescante. «Chi compra azioni di società calcistiche, va interdetto», disse. Visto il flop delle quotazioni, limate di oltre il 50% del valore, non aveva tutti i torti.
Ma al peggio non c’è mai fine. E nel 1999, sotto il primo governo D’Alema, i diritti tv diventarono soggettivi a eccezione di quelli in chiaro che rappresentavano però una percentuale minima del fatturato. A volere questa epocale trasformazione, che portò in dote debiti su debiti, i grandi club capitanati dall’allora presidente della Roma, Franco Sensi. Le società medio-piccole non riuscirono a ribellarsi ai poteri forti salvo poi ritrovarsi con il sedere per terra. E il governo si appiattì sulle richieste di una oligarchia. Curiosamente allo sport c’era l’italo-americana Giovanna Melandri che fece in tempo a ravvedersi ripristinando nel 2007 l’antico canovaccio della vendita collettiva «per salvaguardare l’intero sistema». Del genere, meglio tardi che mai.
Nel frattempo il debito è arrivato a tre miliardi, di cui due in A, perché quel denaro facile da conquistarsi e ancora più da spendere fece perdere la testa anche a presidenti di lungo pelo. Una corsa al massacro. Sul mercato finirono somme enormi per acquistare giocatori buoni e meno buoni, gl’ingaggi scalarono vette ritenute inaccessibili. In dieci anni sono stati bruciati quasi sei miliardi di diritti tv che, per oltre il 60%, sono finiti nelle casse dei soliti noti, i grandi club. Fortissime le sperequazioni: Juve e Inter hanno incassato un anno fa 90 milioni circa a testa contro i 10-12 di Siena ed Empoli. Tutti proiettati sulla gestione sportiva. Solo la Juventus ha deciso d’investirne 30 sulla ristrutturazione del Delle Alpi.
In Serie A s’è toccato il fondo nel 2003 e nel 2004 con i risultati netti d’esercizio in rosso rispettivamente di 532 e 452 milioni, quasi un miliardo in due stagioni. L’inversione di tendenza verificatasi nel 2006, con perdite limitate a 64 milioni, ha cozzato l’anno successivo con una nuova sbandata da 148 milioni. Cosa dire poi della B che nelle ultime sette stagioni non ha mai chiuso i conti con meno di settanta milioni di disavanzo? Che poi certi presidenti ci mettano del denaro proprio per ripianare i debiti, è un altro discorso. Potrebbe essere preso ad esempio il regolamento della Nba che autorizza le spese oltre il limite consentito dai ricavi previa corresponsione di una penale («luxury tax») agli altri club della Lega. Qualcosa migliorerà con la vendita dei diritti collettivi a partire dalla prossima stagione. Ma ci vogliono delle regole nuove per riportare i conti in ordine.
Cosa potrebbe accadere il giorno che i principali network tv facessero cartello e decidessero di ridurre gli investimenti nel calcio? La risposta non può consistere solo nel grande balzo in avanti di trasformare i club di calcio in società di intrattenimento per far quadrare i conti dissennati della gestione sportiva.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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