La costa della vergogna: i clan e il sacco di Messina

Il nubifragio si è abbattuto su un’area dal sistema idrogeologico devastato dalla cementificazione selvaggia. La Dia aveva lanciato l’allarme fin dal 2000. Le vittime salgono a 28

La costa della vergogna: 
i clan e il sacco di Messina

Milano - «Tutti i segnali raccolti denunciano il pieno controllo del territorio da parte di Cosa Nostra». È l’aprile del 2000. La Direzione investigativa antimafia invia a Parlamento una relazione sugli interessi che legano la criminalità organizzata al business del cemento. Un intero capitolo è dedicato alla Sicilia. Storia di nove anni fa. Prima che la pioggia sciogliesse le montagne. Prima che il fango coprisse Gianpilieri e i suoi abitanti. Prima che Messina tornasse a fare notizia. E prima che - per l’ennesima volta - una tragedia venga archiviata alla categoria «destino infame». Perché già nove anni fa, la costa nord della Sicilia - che lasciando Messina corre da Bagheria a Finale di Pollina - era finita in una maxi inchiesta della procura di Termini Imerese. Costruzioni abusive a picco sul mare, alberghi edificati sugli scogli, colline spianate, case di villeggiatura. Il lungomare sfregiato. Le norme edilizie aggirate oliando la filiera delle autorizzazioni. «Tangenti», spiegò al giudice l’8 marzo del 2001 Ettore Crisafulli, uomo d’onore che aveva iniziato a collaborare con i pm. Mazzette «a quattro livelli: a funzionari della Regione, a uomini fidati negli enti locali, alla commissione provinciale di controllo, e alla stessa Cosa Nostra». A Termini, lavorava un giovane e coraggioso magistrato, ora alla procura di Milano. Frank Di Maio, a distanza di anni, ricorda. «Dopo i sequestri, chiedemmo che gli edifici abusivi fossero abbattuti. Ma continuavano a metterci i bastoni tra le ruote». Nessuno voleva demolire quello che la cupola aveva costruito. «Le ditte - ricorda il pm - si rifiutavano di lavorare per noi. Fummo costretti a rivolgerci al genio militare».

Il rapporto sulle eco-mafie parla di «abusivismo selvaggio» sulla costa settentrionale della Sicilia: nella maxi inchiesta di Di Maio finirono 175 indagati, 4 i miliardi di oneri che lo Stato incassò dalle concessioni demaniali fino a quel momento mai riscosse. La corsa al mattone non era cosa per pochi. Era sistema. «Nell’inchiesta - si legge ancora nelle carte - sono finiti quasi tutti gli alberghi della zona, piccoli e grossi che si affacciano sul mare e che avevano pensato bene di realizzare strutture in cemento sugli scogli per consentire ai clienti una fruizione esclusiva del mare. Piste da ballo, locali adibiti a bar, cabine e spogliatoi, magazzini, terrazzamenti». Su tutto scattano i sigilli della procura di Termini. Che - oltre che a Cosa Nostra - si trova a fare la guerra con la rete di connivenze che rende indistinte le responsabilità. E le scarica sui cittadini. Ancora la Dia: «La presenza mafiosa interviene sia in sede decisionale, con complesse mediazioni necessarie per conciliare interessi divergenti, sia in sede di esecuzione dei lavori».

Così, le case spuntano come funghi là dove non dovrebbero esserci. A Cefalù, ancora la Procura di Termini sequestrò un’intera area tra Settefrati, Aranciotto e Capo Plaia. Qualcosa come 70mila metri quadrati disseminati di lussuose villette tra gli ulivi millenari. «Dopo indagini, controlli e sopralluoghi - continua il rapporto - è risultato che molte opere erano state costruite con palesi violazioni edilizie o grazie a occupazioni abusive di suolo pubblico o demaniale, con danni all’ambiente e una truffa resa possibile anche dalla complicità di funzionari pubblici che tutto hanno fatto tranne che controllare e preservare il territorio». Arrivano corpo forestale, carabinieri, guardia di finanza. Arrivano i sigilli. Ma demolire è un’altra cosa. Per quello, bisogna fare i conti con Cosa Nostra. Perché a Cefalù ci sono i turisti. E con loro, il denaro.

È che è bello godersi una villa vista mare. Poi, se crolla, è un problema per chi ci sta sotto. Il Paese conta le vittime. La mafia, i soldi. Nel dicembre di nove anni fa, lo ha spiegato ai giudici il pentito Angelo Siino, considerato l’ex ministro dei Lavori pubblici di Cosa Nostra. Per accumulare fondi neri, basta risparmiare su materie prime e tecniche di lavorazione. Uno dei trucchi sta «nella differenza tra calcestruzzo gettato e calcestruzzo pompato - racconta Siino -.

Tra l’uno e l’altro c’era una differenza oscillante tra le 2mila e le 5mila lire al metro cubo». Al limite, un viadotto si sbriciolerà come un cracker. Al limite, toccherà piangere un’altra Gianpilieri. Ma chi doveva guadagnare l’avrà fatto. E pace ai morti.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Pubblica un commento
Non sono consentiti commenti che contengano termini violenti, discriminatori o che contravvengano alle elementari regole di netiquette. Qui le norme di comportamento per esteso.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica