Professor Nicolò Zanon, ordinario di diritto costituzionale alla Statale di Milano, le intercettazioni sono una materia che va regolata con una legge?
«Senza dubbio. La riservatezza è un diritto costituzionale che va tutelato. Mi fanno sorridere quelli che dicono: intercettatemi pure, non ho nulla da nascondere. Bisogna salvaguardare la possibilità di conversare al telefono in via riservata senza il timore che le trascrizioni finiscano sui giornali».
Qual è il punto di equilibrio tra tutela della privacy ed esigenze investigative?
«Il provvedimento in discussione individua il criterio dei gravi indizi di colpevolezza, il che mi sembra corretto. Anche l’investigatore, dal punto di vista deontologico, deve rendersi conto che esistono strumenti di indagine tradizionali certamente un po’ più faticosi delle intercettazioni, ma che danno riscontri oggettivi molto più certi. Sono metodi che magari obbligano a lavorare di più, sappiamo che intercettare è molto comodo, ma in questo modo si sacrificano arbitrariamente diritti fondamentali che invece vanno protetti allo stesso modo di diritti come la necessità di reprimere i reati o altre libertà».
Quali correttivi suggerirebbe al decreto sulle intercettazioni?
«Giudico inutile, inopportuno e anche controproducente l’intervento sulla stampa. Il giornalista che pubblica trascrizioni coperte da segreto non è l’autore della fuga di notizie, ma il terminale».
Quindi i giornalisti non hanno responsabilità?
«Se vengono pubblicati atti in violazione del segreto istruttorio, bisogna considerare due posizioni. Chi viola il segreto per ragioni d’ufficio, quindi il magistrato o l’ufficiale giudiziario o il cancelliere che viene a conoscenza di atti coperti da segreto e ne divulga il contenuto, commette un reato. Quando invece gli atti secretati finiscono in mano a un giornalista, c’è da discutere se la diffusione degli stessi costituisca un concorso esterno in un reato oppure l’esercizio di una libertà fondamentale, cioè quella di pubblicare le informazioni di cui il cronista è venuto a conoscenza».
La sua posizione qual è?
«Credo che per il giornalista prevalga la libertà di informare e pubblicare ciò di cui è venuto a conoscenza. È un suo diritto-dovere. Allo stato del diritto vigente, non c’era bisogno di intervenire con norme bavaglio sulla stampa, che sono controproducenti, gettano un’ombra sull’intera disciplina e scatenano polemiche gravissime sul piano politico. Si dà una pessima impressione generale, come se ci fosse una volontà censoria della libertà di stampa: una libertà fondamentale in uno stato liberale. Proprio non comprendo la ratio ispiratrice di questo tipo di scelta. Come direbbe qualcuno, il giornalista non c’azzecca proprio».
E dove si doveva intervenire?
«Si tratta semmai di perseguire fermamente la violazione del segreto istruttorio di chi la compie per ragioni d’ufficio».
Quindi sui magistrati e gli investigatori.
«Avrei incentivato l’esercizio dell’azione penale verso quei pubblici ufficiali, magistrati o altro, che colpevolmente divulgano il contenuto delle intercettazioni di cui sono venuti a conoscenza. Compresi i giudici delle indagini preliminari».
Si riferisce alle ordinanze cautelari?
«Ci sono Gip che emettono provvedimenti di centinaia di pagine in cui riportano, con il copia-incolla, i brogliacci integrali e le trascrizioni delle intercettazioni senza un minimo di filtro, senza distinzione tra ciò che è penalmente rilevante da ciò che è conversazione privata».
Ma le ordinanze sono atti pubblici e liberamente consultabili.
«Infatti il giornalista le pubblica perché capisce che suscitano interesse magari morboso nella pubblica opinione. Ancora una volta il problema non è il giornalista, ma il magistrato il quale, anziché il copia-incolla, potrebbe fare un intervento preventivo e inserire nell’ordinanza soltanto ciò che è penalmente rilevante».
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