L’assioma non è scontato, è vero. Non è detto che se adeguassero il look all’istituzione che rappresentano, poi lorsignori onorevoli eviterebbero di picchiarsi in Aula. Era il 18 marzo 1949 quando, tanto per citare il primo episodio, la Camera votò l’adesione dell’Italia alla Nato e il comunista Giuliano Pajetta si lanciò «a catapulta», come da resoconto stenografico, contro un collega, dando il via a una rissa che vide volare nell’emiciclo pure un cassetto. E Pajetta indossava ligio la cravatta.
Epperò si potrebbe almeno provare. Perché qui, a vederli svaccati sui banchi del Parlamento, la barba sfatta, il capello unto, la postura allungata sulla sedia, la giacca sì ma senza cravatta oppure viceversa, ecco, a vederli così, deputati e senatori, viene da rimpiangere persino uno come Oscar Luigi Scalfaro, che riprese come uno scolaretto Mauro Borsano, allora potente patron del Torino, craxiano di ferro e neodeputato, che, durante una seduta estiva, ebbe l’ardire, pur dotato di cravatta, di togliersi la giacca.
Franco Barbato, per dire. L’esponente Idv che due giorni fa a Montecitorio ha rimediato un pugno in faccia da un collega del Pdl ha avuto soltanto fortuna, a finire in tv e al cospetto del popolo italiano in giacca e cravatta. Perché di solito dimentica l’una e l’altra, e comunque insieme non riesce proprio ad abbinarle. È in buona compagnia, del resto. Dalla camicia pezzata di Antonio Di Pietro al Bocciofila style di Pier Luigi Bersani, i leader in primis non danno il buon esempio. Che poi. Da che Repubblica è tale, si dice che la sinistra sia storicamente più trasandata: se De Gasperi ostentava raffinatezza impeccabile, Togliatti era spesso inguardabile. Eppure fu Maroni a costringere Calderoli a mettersi le calze per salire al Colle.
«Sono molto più eleganti i commessi nei loro completi blu», lamentava già qualche anno fa l’ex senatore Mario D’Urso, che per i deputati avrebbe voluto rendere obbligatorio il cambio d’abito per il pomeriggio, in segno di rispetto per le istituzioni, «invece di andarsi ad abboffare alla buvette».
Se la battaglia pare persa in partenza, allora ridateci almeno Speroni, che la crociata anti-cravatta l’aveva ingaggiata per una questione di principio, e non di sciatteria. Alla sua prima seduta, il capogruppo leghista si era presentato con un cordoncino di cuoio al posto della classica «tie». Ripreso dai commessi che lo pregavano di indossare la cravatta, aveva risposto citando il regolamento: «Non c’è scritto di che tipo: questa è una cravatta texana».
Via la cravatta, in Parlamento addio bon ton
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