Cesare Cremonini, perché un libro?
«Non è una autobiografia, ma un viaggio attraverso le canzoni che sono sempre state lo specchio della mia vita».
E perché proprio ora?
«Ho iniziato a scrivere in primavera per evitare che il lockdown fisico diventasse anche mentale».
Bello il titolo.
«Let them talk, lasciali parlare».
Chi?
«I mostri».
Ci voleva un libro per mettere ordine. Per mettere in fila successi e ossessioni, paure e progetti del più talentuoso e onnivoro della generazione di mezzo, quella dei cantautori nati negli Ottanta però con la sensibilità nei Settanta. Un libro con una ventina di capitoli, tutti intitolati a una canzone, da PadreMadre a 50 Special a Figlio di un re, e tutti attorcigliati a episodi, decisivi o no, della sua vita. In più ci sono le citazioni, tante citazioni piazzate spesso in modo inaspettato, come quella di Werner Heisenberg, padre della meccanica quantistica, e di George Best, con la prevedibile «Ho speso un sacco di soldi per alcol, donne e macchine veloci. Tutto il resto l'ho sperperato». Scrivere, scrive bene da sempre, Cremonini, e qua ci sono le sue immagini secche e imprevedibili, lo stile armonioso ma non barocco e le frasi che, patapum!, arrivano all'improvviso e ti lasciano lì. Stavolta si è seduto sul lettino del lettore e ne ha tirato fuori un libro (edito da Mondadori e curato da Michele Monina) che potrebbe essere un romanzo o una raccolta di novelle ma non è una autobiografia semplicemente perché è sganciato dai parametri fissi che scandiscono le autobiografie. Più che altro, è l'autobiografia di un paio di mesi trascorsi a riguardare il passato e a vederlo stavolta con gli occhi di un quarantenne che nella libertà di pensiero ha il vero demone inguaribile (forse più di quel mostro che nel 2017 «gli premeva sul petto» mentre era divorato dalla ricerca della perfezione).
Insomma, Cremonini, è una sorta di autopsicanalisi mentre il mondo era chiuso in casa. Scrive che la pandemia «ha dato la possibilità a tutti di indossare delle maschere».
«Sì, è un carnevale virale senza fine. Si può decidere di indossare una divisa senza essere stati militari, oppure sembrare chirurghi anche se non sappiamo dov'è il pancreas».
Nel libro ci sono frasi a bruciapelo che diventano slogan riusciti, come «È poesia tutto ciò che non si chiama per nome».
«Diciamo che il libro mi è servito a unire sotto la stessa copertina le due facce della mia vita, quella privata e le canzoni che poi sono diventate pubbliche».
Delle vite private (anche della sua) si parla spesso e talvolta troppo. Parliamo di musica.
«Le canzoni sono sempre state lo specchio della mia vita, ed è perciò che i loro titoli sono anche i titoli dei capitoli di Let them talk».
Tanti dicono che scrivono per esorcizzare i demoni. Anche lei?
«No, io scrivo per dialogare, non per zittire. Le mie canzoni e le mie vicende personali hanno sempre dialogato. E dialogo anche con una parte di me con cui dovrò parlare probabilmente per sempre».
Quella che gli «premeva sul petto» e lo portò ai confini della schizofrenia.
«Anche».
Quest'anno avrebbe dovuto fare un tour negli stadi.
«Infatti Let them talk avrebbe dovuto essere una parentesi per raccontare il percorso verso il tour in partenza ufficiale da Imola (il concerto è poi stato spostato al 5 giugno 2021, ndr). Poi è diventato un percorso lungo e complesso e diverso».
A proposito di concerti.
«Dovranno diventare più sostenibili e il mondo dei concerti dovrà interagire con maggiore profondità con il mondo dei grandi eventi».
E quelli in streaming?
«Sono interessanti, ma spesso promozionali. L'emotività e l'improvvisazione di un palco non potranno mai essere abbandonati».
All'inizio del
capitolo «PadreMadre» scrive che «siamo criceti di Dio».«Sì, magari giriamo come trottole ma poi scopriamo che siamo fermi nello stesso posto. In fondo, dopo esser nati, passiamo tutta la vita a imparare a nascere».
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