Dentro se la suonano e se la cantano seguendo rigorosamente lo spartito. Ma anche attorno e fuori, prima e dopo, tutti recitano la loro parte con religiosa dedizione. La Prima è un’opera monumentale, richiede certosina conoscenza dei ruoli e scrupoloso rispetto dei tempi. Con una difficoltà in più: non ci sono prove.
Eppure, quando arriva il 7 dicembre, la grande rappresentazione va in scena e mai una volta che si registrino sbavature. Persino gli imprevisti fanno parte del copione: sono imprevisti previsti. Stavolta è l’onda lunga della crisi. Mentre tutti accennano a parlare di ripresa, sotto la pioggia si radunano le rappresentanze più esacerbate di chi ancora questa ripresa fatica maledettamente a notarla. Operai di Pomigliano e di Arese, lavoratori degli enti lirici, cassintegrati e precari. Per qualche attimo sembra tornare la Prima degli anni Settanta, perché tornano i fumogeni, i tentativi di sfondamento, qualche botto sinistro, mezza dozzina d’uova, nonchè tanti, tanti, tanti agenti in assetto antisommossa. Rabbia, nervosismo e tensione. Ma nel complesso, alla fine, solo richiami a non farla troppo allegra. Commenta Fedele Confalonieri, che ha molto orecchio per la lirica e per il clima sociale: «È giusto, i lavoratori stanno soffrendo, è una brutta situazione...».
Lo percepisce persino Valeriona Marini, altra protagonista di questo rito ambrosiano, pronta al suo posto, strizzatissima nel vestito rosso e ispirata nella lettura dell’evento: «Qui non c’è sfarzo, ma solo un clima di eleganza. È diverso. Significa soltanto amare le cose belle».
Anche il richiamo alla sobrietà fa parte del rito. Sempre di più. Tutti, a cominciare dai solerti inviati Rai, mettono su il disco della sobrietà. Purtroppo, il concetto è troppo relativo: c’è un sacco di gente che fatica ad accettare come espressioni di sobrietà la sfilata di auto blu, gli orologi da mezzo chilo, le collane e gli strascichi, gli smoking e il biglietto da duemila euro. Ma non fa nulla: questo esige la liturgia. Serve il titolo sulla sobrietà, tutti diligentemente intonano il sentito richiamo alla sobrietà.
E non solo quello. Come lasciare fuori l’altro grande richiamo alla riscoperta della lirica, «soprattutto tra i giovani». Ogni anno, il 7 di dicembre, sale alto l’appello: bisogna riportare la lirica nelle scuole, bisogna avvicinare i giovani, bisogna, bisogna, bisogna. È come con gli eroi olimpici: quando vincono medaglie, tutti a dirci che non bisogna dimenticarli. Poi, a fari spenti, per quattro anni chi se lo fila più un Maenza o un Cassina. Così il rilancio della lirica: il 7 dicembre è la prima delle esigenze nazionali, dall’8 si può tranquillamente passare ad altro. Appuntamento fra dodici mesi, nessuno se lo scordi.
A questo andazzo, stavolta, molti agganciano l’indifferenza della politica. Chi chiede attenzione e rilanci non si accontenta della Brambilla e di Sacconi, come unici rappresentanti del governo, benché supportati dal sottosegretario Romani. Il direttore Lissner prova a passare oltre: «Ministri, ambasciatori o lavoratori, per me non fa differenza: io lavoro per riempire il teatro».
E comunque c’è il presidente Napolitano. Quando arriva sul palco centrale, attorniato da Formigoni, Podestà e dalla signora Moratti, tutte le istituzioni a decrescere sono lì: Stato, Regione, Provincia, Comune. Mentre in sala viene osservato un minuto di silenzio a sostegno dei lavoratori - anche questo, ormai, un rito: fu osservato per le vittime della Thyssen -, c’è chi legge sui loro volti tutta la difficoltà del momento. Forse è il famoso richiamo alla sobrietà. Chi può dire.
Qualche piano più su, altri attori immancabili: e come no, i loggionisti. Gente fiera che sfila sulla scala della Scala esprimendo in modo netto - con gli sguardi, con le parole - il concetto fondamentale: noi siamo quelli che capiscono, non abbiamo nulla a che spartire con gli imbucati della platea. Celebrati, temuti, riveriti, se la tirano abbastanza. Sono una casta. Vestono apposta divise più dimesse, per la serie io bado solo alla musica. Ma vai a sapere se tutti la sanno davvero così lunga. In ogni caso, devono esserci. Ciascuno qui deve recitare la sua parte. Dolce, senza Gabbana, espone il nuovo fidanzato ufficiale, un certo Massimiliano, ballerino. Lina Sotis, signora di tutti i bon-ton, espone una sua idea su Carmen: «Vengo alla Prima da 43 anni, per la prima volta ho visto l’eros sul palco della Scala» (!, n.d.r.). Dan Brown, re dei best-seller, espone un suo progettino: «La Scala è il posto giusto per ambientarci un bel romanzo...». Tutti, chi più chi meno, espongono emozioni. I melomani veri si bevono le quattro ore dell’opera e neanche se n’accorgono. Le melomani finte, che sfruttano l’opera per sfoggiare il lungo e il silicone, pagano pesantemente assaporando una prima idea di supplizio eterno. Ognuno al suo posto, così vuole l’eterna sceneggiatura della Prima. Un rito stanco e superato? Mi sono chiesto spesso che senso abbiano i riti.
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