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La vera sfida dell'impresa: fare affari, non politica

Negli ultimi cinque/dieci anni l'industria automobilistica occidentale ha scelto la reputation, stare dalla parte giusta prendendo le distanze dal motore termico

La vera sfida dell'impresa: fare affari, non politica

Dietro la querelle sul 2035, auto elettriche sì o no, si celano due temi molto importanti per il futuro dell'economia europea e occidentale. Il primo: se l'industria debba ascoltare ciò che le persone pensano ovvero ciò che poi fanno al momento dell'acquisto, quando si trasformano in clienti. Il secondo: se l'attuale modello industriale, quello della public company, abbia gli anticorpi per resistere alle pressioni politiche. Stare dalla parte dell'opinione dominante, dei benpensanti del momento, dà conforto. Nell'epoca della reputation sembra una scelta obbligata, nel solco della filosofia ESG per cui la morale non è più quella cosa viva, che si trasforma e che orienta i comportamenti secondo le convenienze, ma un diktat fissato che impera a prescindere dal contesto e dal sentire comune. Peccato però che l'impresa non tragga i suoi ricavi dalla reputazione ma dai clienti che pagano le fatture. È a loro e solo a loro che l'industria deve prestare ascolto, per la sua sopravvivenza e prosperità, che è poi la missione sociale dell'impresa: creare occupazione e ricchezza. Prendiamo l'industria delle armi: chi mai può vederla di buon occhio, a parte i suoi dipendenti? Eppure, non è chiudendo una fabbrica che cesserà l'uso delle armi da parte dei criminali o in guerra, posto che ci sia differenza.

Ancora, l'industria petrolifera, che da alcuni anni ha scelto di chiamare se stessa energie per la mobilità. Va bene, ma cosa vendono? Benzina e gasolio. E prima cosa vendevano? Benzina e gasolio. E la gente quand'è che incontra questa industria? Quando sta a riserva e deve fare il pieno. Di cosa? Di benzina o gasolio. È troppo chiedere di farci il piacere? Venendo alle auto, quanto sono felici gli operai delle fabbriche che chiudono perché l'azienda ha deciso di produrre macchine a pile che la gente apprezza ma i clienti non comprano?

Negli ultimi cinque/dieci anni l'industria automobilistica occidentale ha scelto la reputation, stare dalla parte giusta prendendo le distanze dal motore termico, totem di tutti i mali che questa civiltà avrebbe portato a un mondo diversamente popolato di felici pecorelle e buone colombe, che trattano benissimo donne e minori e dove la libertà trionfa. Perché l'ha fatto? Semplice: perché quella era la strada della convenienza. Capi-azienda compensati in base al valore di borsa del titolo hanno scelto di cavalcare il favore del momento, facendo ciò che i mercati finanziari premiavano. Quanto ai bilanci, sappiamo bene come non ci voglia poi tanto a incipriarli per qualche anno, fintanto che si ricopre quella posizione. Poi saranno affari di altri. Del resto, ne abbiamo avuto conferma dai due osannati top manager, Tavares e De meo, che appena dopo aver lasciato l'industria hanno spiegato che no, quella strategia su cui giuravano fino al giorno prima non poteva funzionare.

Ecco il vero punto: la mancanza di visione di lungo periodo, quella che invece accompagna le scelte dei padroni, di quelli che pensano ai loro nipoti.

In conclusione, questa triste vicenda lascia macerie e un paio di insegnamenti, per chi voglia coglierli. Uno, che l'impresa può accettare digressioni dalla sua missione di produrre ricchezza, ma entro certi limiti. Non può mai asservire se stessa e le sue strategie al perseguimento di obiettivi che si pongano in contrasto con quella missione. Sostenere la squadra di calcetto va bene, ma basta lì.

Due, che il modello della public company che affida a manager pro-tempore i destini dell'impresa non ne garantisce la sopravvivenza nel medio-lungo periodo. Qui la soluzione è più difficile, ma non per questo può non essere cercata.

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