Ne hanno condannato a morte un altro. E sempre per lo stesso reato, la blasfemia. Nel Pakistan di oggi essere cristiani è sempre più difficile. Settimana dopo settimana si moltiplicano le notizie di soprusi, condanne, minacce. Un quadro preoccupante, che ha indotto il Papa a lanciare un solenne richiamo al rispetto della libertà religiosa, in occasione della presentazione delle credenziali del nuovo ambasciatore del Paese asiatico presso la Santa Sede, la signora Ayesha Riyaz.
«Cristiani e musulmani adorano entrambi l’unico Dio, onnipotente creatore del cielo e della terra: è questo credo che ci spinge a unire le menti e i cuori mentre lavoriamo instancabilmente per la pace, la giustizia e un miglior futuro per l’umanità», ha dichiarato ieri Benedetto XVI, rinnovando l’appello alla cooperazione tra cristianesimo e Islam. Ma in un’era in cui le minacce alla libertà di culto «diventano sempre più inquietanti in tutto il mondo, nessuno può essere oggetto di discriminazioni o essere messo ai margini della società in ragione delle sue convinzioni religiose».
Il monito vale per tutti i Paesi, ma in questi frangenti per uno in particolare: il Pakistan del presidente Parvez Musharraf, appunto, che il Pontefice sollecita «a incrementare lo sforzo nell’assicurare alle persone il diritto alla vita, la libertà di fede e di compiere opere di carità secondo la loro coscienza e libere da ogni intimidazione». Il messaggio è chiaro: il governo di Islamabad deve proteggere i cristiani presenti sul suo territorio, anche perché le persecuzioni avvengono per mano di gruppi integralisti islamici o di singoli fanatici, che però spesso possono contare sulla condiscendenza degli organi dello Stato. La polizia non protegge e i tribunali son fin troppo solerti nel convalidare le denunce anticristiane.
L’ultimo episodio è emblematico. AsiaNews, l’agenzia di stampa del Pontificio istituto missioni estere (Pime), diretta da Bernardo Cervellera, ha rivelato che mercoledì scorso una Corte distrettuale pakistana ha condannato alla pena capitale, per offesa a Maometto e al Corano, Younis Masih, che in realtà si era limitato a difendere la libertà di culto. L’episodio risale al 9 settembre 2005, quando, secondo la ricostruzione dell’avvocato, «un gruppo di cristiani si era riunito per pregare in un quartiere di Lahore, il Chungi Ammarsiduh, ma uno dei vicini ha detto loro di andarsene». Abdul Aziz, uno dei querelanti, aveva iniziato a discutere con Masih «perché pretendeva che i cristiani pregassero secondo i termini islamici. La discussione è degenerata in una lite, e due giorni dopo è arrivata l’accusa di blasfemia».
Prove? Nessuna, il legale spiega che «la condanna si basa sul nulla. La testimonianza dei musulmani basta come prova di reato. Qui non serve altro per uccidere un uomo». Younis Masih, che è stato condannato anche al pagamento di centomila rupie di multa, presenterà appello all’Alta Corte, sempre che ci arrivi vivo: lui e il suo avvocato hanno ricevuto diverse minacce di morte.
E non è l’unico caso. Il Pime continua a documentare le violenze subite dai cristiani in questo Paese. La scorsa primavera un anziano di 84 anni è stato arrestato con l’accusa di blasfemia, nell’ambito di una vicenda dai contorni poco chiari, che ha indotto oltre cento persone, tra cui anche molti musulmani, a testimoniare a favore di un anziano possidente. L’accusato sarebbe in realtà vittima di una congiura ordita dall’autista per impossessarsi dei suoi terreni.
Dal 7 maggio seicento famiglie cristiane di Charsadda e Mardan, nel nord del Pakistan, vivono nel terrore di un pogrom. I fondamentalisti hanno inviato una lettera, intimando loro «di convertirsi e di chiudere le chiese nel Paese», altrimenti «tutti i cristiani saranno giustiziati». Le forze dell’ordine hanno ridimensionato l’accaduto, sostenendo che «si tratta di uno scherzo».
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