La critica Un mito snobbato dai registi allineati

Chi l’immaginava? Mazzini e mazziniani ritrovano la via del grande schermo con Mario Martone nell’avvicinarsi del secolo e mezzo dell’unità nazionale. In occasione del secolo (e basta), al rivoluzionario borghese genovese Roberto Rossellini aveva concesso solo un paio di minuti al cospetto del suo ex allievo Giuseppe Garibaldi in Viva l'Italia!.
Il vizio cinematografico del Risorgimento nel cinema più recente è che a narrarlo sono stati talora borghesi romani, opportunisti come Rossellini prima, progressisti come Magni poi. Magni in particolare ha fatto di Roma papalina la protagonista indolente e la vittima dolente del Risorgimento. Si diceva ieri, riferendo del kolossal catastrofico 2012, che vi si vede Berlusconi, davanti alla basilica di San Pietro (Città del Vaticano), mentre attende la fine del mondo con una candela in mano e, soprattutto, in ginocchio: non in piedi, magari in Senato, memore della dignità dell'antica Roma repubblicana, alla quale si richiamavano tanto Mazzini quanto George Washington e Thomas Jefferson, Robespierre e Marat...
Se Mazzini non ha avuto fortuna al cinema nemmeno dopo il 1946, si può immaginare prima, in epoca savoiarda. Nel raccontare il passato, il cinema s’adegua alla politica del presente. E, sotto il re, i repubblicani - Mussolini incluso - o abiuravano o non contavano nulla. Magari si narravano, in epoca monarco-fascista, le disgrazie di Luisa Sanfelice nel film omonimo di Leo Menardi (1942), ma solo perché offrivano l’occasione di invettive anti-inglesi per via di Horace Nelson e Lady Hamilton. Il resto era commedia patriottica, come Un garibaldino in convento di Vittorio De Sica, o dramma patriottica come Piccolo mondo antico di Mario Soldati, entrambi film usciti nel 1941.
Meno di dieci anni dopo Pietro Germi avrebbe firmato, col Brigante di Tacca del Lupo, un film sulla repressione della resistenza borbonica che non la magnificava, ma lasciava capire che l’unità nazionale era stata annessione del Sud al Nord. Nel 1953, quando c’erano da cantare le glorie patrie per la crisi di Trieste, Luchino Visconti otteneva i soldi per trarre Senso dalle pagine di Boito. Ma il regista era troppo disincantato per non dire, soprattutto, che i fondi per i patrioti venivano distratti per storie di letto. Analoga la morale dell’altro film a sfondo risorgimentale di Visconti, Il gattopardo, girato nel 1960.
Di recente il Risorgimento ha avuto altre revisioni meridionalistiche con Li chiamavano briganti di Pasquale Squitieri (1999) e Fra due mondi di Fabio Conversi (2002). Se ne coglie che il Nord ha ormai smesso di avere un ruolo propulsivo e positivo nell’unità d’Italia.

Al cinema il nord scivola indietro, verso il frazionismo medioevale dei Comuni in Barbarossa di Renzo Martinelli, non verso l’Ottocento unitario della nazione che entusiasmava Alexandre Dumas e Jesse White Mario. La cosa più triste è gli italiani lo trovino normale.

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