La «Croce di Lepanto» non è politically correct Ma rimane al suo posto

Caro Granzotto, nel suo Angolo destinato alla crociera di maggio del Giornale lei ha indicato la «cruz de Lepanto» conservata nella cattedrale di Barcellona. Intanto che mi complimento per la conoscenza di quella città - credo che pochi sappiano dell’esistenza della croce issata sulla ammiraglia della flotta della Lega Santa - le chiedo: ma non è politicamente scorretto (e pericoloso) esporre il simbolo della vittoria della cristianità sui musulmani in uno Stato, poi, che li ebbe dominatori e che oggi vi risiedono da extracomunitari? Non c’è il rischio che quella santa croce finisca in qualche sgabuzzino per non urtare la eccitabile sensibilità islamica?
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Non c’è neanche da dirlo, caro Donati: di quella croce, la croce di Lepanto, la comunità islamica residente in Ispagna - ma possiamo ben dire tutto l’Islam, anche quello soi-disant moderato - vorrebbe farne legno da ardere. E magari alla sempre soi-disant società civile zapatera l’ideuzza di riporla in luogo appartato sarà venuta, ma sapendo che per farlo devono prima passare sui corpi dei cattolici spagnoli, che quella croce non solo venerano, ma sentono anche come simbolo identitario, ha lasciato perdere. Barcellona è una bella città e almeno una volta l’anno ci torno per qualche giorno. Mi piace soprattutto - e a chi non piace? - il Barrio Gotico e la cattedrale, che non finisce mai di sorprendermi e di emozionarmi (al centro della navata c’è uno stupendo coro ligneo, disposto per l’unica riunione plenaria dei cavalieri del Toson d’oro. Il primo scranno sulla destra è quello di Carlo V, che dell’Ordine era il Gran Maestro. Non lo dica a nessuno, ma dietro propina, mancia, il custode chiude un occhio consentendo a chi ha gusto per queste esperienze - il sottoscritto, per dirne uno - di sedersi dove s’era seduto uno fra i più grandi, uno dei più eminenti personaggi storici, quello nel cui impero non tramontava mai il sole). C’è poi la presenza di Lepanto, un’altra delle mie passioni: la croce nella cattedrale e la ricostruzione della galea «La Capitana», l’ammiraglia della flotta cristiana, esposta al Museo Maritìm. Vedendola, ci si chiede come riusciva a ospitare le decine e decine di uomini al remo, gli altrettanti soldati, i marinai e lo stato maggiore di don Giovanni d’Austria. Eppure così andò. Tutti argomenti di conversazione una volta tornati a bordo della «Fantasia», la nave che accoglierà i croceristi del Giornale. Pensi, caro Donati, solo alle vicende di don Giovanni, uno dei molti figli bastardi - si diceva allora, meticci credo si debba dire oggi - di Carlo V. Il solo ad aver avuto titolo e ruolo importante a fianco del fratellastro Filippo II. Chissà perché Carlo V lo volle togliere dall’anonimato al quale destinò gli altri suoi illegittimi rampolli. Forse per via - cerchez la femme - della madre di Giovanni, una assai bella e giovane fiamminga di nome Barbara Blomberg, che seppe affatturare l’imperatore il quale, seppur sommerso dagli affari di Stato, seppur perennemente in guerra con qualcuno, sapeva trovare il tempo per certe galanti bricconate (pur restando sempre innamoratissimo e premuroso nei confronti della consorte, Isabella d’Aviz, che gli perdonava tutto).
Il bello della crociera è che è come portarsi dietro un albergo di lusso. Ciò che consente questo tipo di turismo come posso dire? Non sbrigativo. Al termine dell’escursione, tornati a bordo c’è il tempo e l’agio di scambiarsi le proprie impressioni, di approfondirle e arricchirle disaminandole. Scampando così il destino, divertente e fricchettone quanto si vuole, ma sterile, del turismo «per caso».

Lei poi dimentica, caro Donati, che di Barcellona avevo indicato anche un ristorante, dove certo mi recherò con i lettori che vorranno seguirmi, rispettoso di quello spirito del buon vivere che anima il Circolo del Tavernello. Non si vive di sola Storia, ecchediamine. Dia retta, venga con noi.

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