Crollano gli ordini negli Usa: si allontana il rialzo dei tassi

Future sui Fed Fund: scendono dal 60 al 44% le probabilità di una nuova stretta a giugno

Rodolfo Parietti

da Milano

La tanto criticata volatilità dei prezzi del petrolio o delle valute, è quasi nulla se confrontata alle bizzarre oscillazioni dei future sui Fed Fund, lo strumento che meglio dovrebbe esprimere l’evoluzione dei tassi americani. Fino a martedì sera, i future con scadenza a luglio accordavano un 60% di probabilità all’ipotesi di assistere, il prossimo 29 giugno, a un’ennesima stretta al costo del denaro Usa. Ieri, la percentuale è crollata al 44%. Un cambio di prospettiva sostanziale, giustificato dall’inatteso quanto drastico calo degli ordini di beni durevoli nel mese di aprile: meno 4,8%, un arretramento pesantissimo rispetto al più 6,6% di marzo.
Il dato potrebbe essere la spia di una prossima decelerazione del ciclo economico, soprattutto perché il calo ha riguardato gli ordini relativi ai beni capitali, un indicatore-chiave per le imprese. Il dollaro ha infatti subito accusato il colpo fino a scendere nei confronti dell’euro a 1,2870, per poi risalire a 1,2742 non appena è giunta la notizia di un aumento pari al 4,9% delle compravendite di case durante il mese scorso. Tra i principali indiziati di rallentamento dopo la lunga fase espansiva, il mercato immobiliare ha invece dato segni di imprevista vitalità, in parte riconducibili alla buona situazione del mercato del lavoro.
La palese contraddittorietà dei dati diffusi ieri rende così ancora plausibile ogni scenario di politica monetaria. Ed è proprio questo il dilemma che Ben Bernanke e i governatori del board dovranno sciogliere entro la fine di giugno. Difficile che il successore di Greenspan fornisca indicazioni da qui al prossimo summit del Fomc (il braccio operativo della banca di Washington). Dopo la gaffe commessa alla fine di aprile, quando aveva ventilato la possibilità di uno stop alla politica delle strette (16 consecutive dal giugno 2004, con i tassi ora attestati al 5%), e la successiva smentita affidata a un’intervista televisiva in cui accusava stampa e operatori di aver travisato il senso delle sue parole, il presidente ha fatto ammenda l’altroieri, chiedendo scusa agli investitori. È un’ammissione di colpa che avrà però una conseguenza: l’osservanza stretta della regola secondo la quale per ogni dichiarazione vanno utilizzati i canali formali e regolari. E uno dei canali di comunicazione per eccellenza è lo statement che accompagna sempre le decisioni di politica monetaria. L’ultimo, quello dello scorso 10 maggio, ricordava che «ulteriori manovre di restrizione monetaria potrebbero essere prese in considerazione». Non a caso, nell’audizione davanti al Congresso di martedì scorso, Bernanke ha riproposto proprio quella frase ed è tornato a sottolineare i rischi di tensioni inflazionistiche.
Il focus è dunque sempre sui prezzi, dal cui andamento dipenderanno in buona misura le scelte della Fed.

Che dovrà tuttavia ben valutare se davvero sia ancora il caso di calcare la mano sui tassi, con il rischio di provocare qualcosa di più serio rispetto al fisiologico rallentamento di un’economia che nel primo trimestre ancora correva a un ritmo di crescita pari al 4,8 per cento.

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