Quando Giuseppe Cavo Dragone parla, la NATO ascolta. Ammiraglio italiano già comandante della Marina, poi capo di Stato maggiore della Difesa, oggi è il presidente del Comitato militare dell’Alleanza, la più alta autorità militare del blocco transatlantico. È il consigliere diretto dei capi di Stato e di governo sulle questioni di sicurezza, la voce che traduce il quadro strategico in posture operative. Le sue parole, dunque, non sono mai semplici analisi: sono un’indicazione di rotta.
Un’Alleanza “più aggressiva”
L’intervista concessa al Financial Times segna un passaggio importante nel pensiero strategico della NATO. Non tanto per il lessico — quel riferimento a un’Alleanza che valuta di diventare “più aggressiva” nel contrasto alla guerra ibrida russa — quanto per ciò che rivela della fase in cui si trova l’Occidente dopo anni di sabotaggi, cyber-attacchi, intrusioni aeree e marittime condotti dentro la zona grigia tra pace e conflitto. È un terreno dove la Russia di Putin ha saputo muoversi con spregiudicatezza, approfittando delle esitazioni normative e operative occidentali, e dove la NATO si trova oggi a interrogarsi su come ristabilire una forma credibile di deterrenza.
Cavo Dragone fotografa una realtà: il fatto che l’Alleanza, nel dominio cibernetico come in quello marittimo, si è limitata troppo spesso a reagire dopo che il danno era già avvenuto. Nel mondo dei cavi sottomarini tagliati, dei gasdotti sabotati, delle piattaforme energetiche e dei data center esposti a operazioni oscure, il “dopo” non basta più. Per questo l’ammiraglio suggerisce che anche una misura preventiva — un’azione anticipata che neutralizzi una minaccia imminente — possa rientrare nella logica della difesa.
Cavo Dragone afferma che un “pre-emptive strike” può essere considerato un’azione difensiva, toccando uno dei nodi più sensibili della dottrina di sicurezza occidentale. L’idea è che, nel dominio della guerra ibrida — dove l’aggressione non si manifesta con carri armati che attraversano una frontiera, ma con cyber-attacchi, sabotaggi clandestini o interferenze contro infrastrutture critiche — la minaccia è spesso evidente prima che il danno si concretizzi. In questo contesto, aspettare che l’attacco avvenga rischia di essere non solo inefficace, ma addirittura irresponsabile.
Il Baltico come laboratorio
Il Baltico è stato in questi anni il laboratorio di questo nuovo confronto. Dopo una sequenza di episodi, dalle esplosioni sui gasdotti alla misteriosa serie di danni ai cavi energetici e digitali, la regione è diventata una vetrina della vulnerabilità europea. L’operazione Baltic Sentry, varata per proteggere le infrastrutture sottomarine attraverso pattugliamenti con navi, velivoli e droni navali, ha dimostrato che la sola presenza di una vigilanza coordinata può scoraggiare ulteriori incidenti sospetti. Ma la vicenda della petroliera Eagle S, finita al centro delle indagini finlandesi e poi uscita da ogni responsabilità per un vuoto giuridico legato alle acque internazionali, ha confermato che la deterrenza non può reggersi solo sulla sorveglianza.
È proprio questo il punto su cui l’ammiraglio insiste con maggiore nettezza. La NATO, a differenza della Russia, opera in un sistema di vincoli giuridici, responsabilità politiche e limiti etici. Sono limiti che definiscono l’identità stessa dell’Alleanza, ma che rendono inevitabilmente più difficile reagire a un attore che non riconosce le stesse regole. Paradossalmente, però, sono proprio questi limiti a rendere oggi più urgente un aggiornamento della postura occidentale: se restare “più virtuosi” significa essere prevedibili, e se essere prevedibili significa offrire a Mosca uno spazio di manovra gratuito.
Il dibattito interno all’Unione Europea
Anche il dibattito interno all’Unione Europea, dal Baltico a Helsinki, è segnato da questa consapevolezza. I Paesi dell’Est chiedono da tempo che la NATO e l’UE non si limitino a documentare le violazioni, ma inizino a dimostrare la capacità di incidere sui costi e sulle opzioni dell’avversario. La Finlandia, che ha sperimentato sulla propria pelle la fragilità delle infrastrutture sottomarine, ha sottolineato che un semplice approccio reattivo equivale a lasciare alla Russia la libertà d’azione nelle acque internazionali. Alcuni invitano alla prudenza, sebbene tutti riconoscano che l’ibrido è ormai parte strutturale della strategia russa e che la risposta occidentale non può più limitarsi alla gestione delle conseguenze.
L’Italia non è spettatrice esterna di questo processo. La rete dei cavi che attraversano il Mediterraneo, le infrastrutture energetiche offshore, la centralità di basi come Sigonella e Augusta nella mappa della sicurezza euro-atlantica fanno del nostro Paese un bersaglio naturale di operazioni ibride. Nelle parole di Cavo Dragone c’è dunque anche un richiamo implicito agli alleati del Sud: la guerra invisibile che oggi si manifesta nel Baltico può, infatti, estendersi ovunque.
La NATO verso una trasformazione dottrinaria
Il nodo di fondo, però, resta concettuale. La guerra ibrida vive sotto la soglia dell’articolo 5, troppo bassa per giustificare una risposta militare collettiva e troppo alta per essere trattata come semplice criminalità comune. È uno spazio liminale che sfugge alle categorie con cui la NATO è cresciuta durante la Guerra fredda e che oggi obbliga l’Alleanza a ridefinire il concetto stesso di deterrenza. Da qui la domanda che l’ammiraglio lascia sul tavolo: come si scoraggia un avversario che può infliggere danni significativi senza mai superare formalmente la soglia dell’attacco armato?
L’impressione è che la NATO si stia avvicinando a una fase di trasformazione dottrinaria: non la replica speculare dell’aggressività russa, ma una forma di “assertività difensiva” che integra presenza, cyber-capacità e coordinamento giuridico. Un passo che richiede equilibrio, perché l’Alleanza non può permettersi di erodere le stesse regole che rivendica come fondamento della propria legittimità.
Più che una svolta, quello indicato da Cavo Dragone è un avvertimento.
La difesa collettiva non può rimanere ancorata a categorie pensate per un mondo che non esiste più; la minaccia ibrida non è una parentesi, ma il nuovo campo di battaglia. Se l’Occidente non saprà adattarsi, saranno altri a decidere le regole del gioco.