Da uomo del rinnovamento a odiatore dell'Occidente: chi è l'ex presidente russo Dmitri Medvedev

Il delfino di Putin, oggi vicepresidente del Consiglio di sicurezza, negli ultimi ha attaccato frontalmente "i nemici della Russia". Ora lo scontro con la Casa Bianca

Da uomo del rinnovamento a odiatore dell'Occidente: chi è l'ex presidente russo Dmitri Medvedev

Una volta era l’uomo del rinnovamento. La speranza liberale. O almeno così ci avevano fatto credere. Oggi è la voce più violenta del Cremlino, il megafono dell’odio anti-occidentale, l’araldo del disastro nucleare. Dmitry Medvedev, quello che nel 2009 parlava di “valori democratici” e sognava “una società di uomini liberi”, oggi si augura la morte di Volodymyr Zelensky, si chiede se tra due anni l’Ucraina esisterà ancora e ogni mattina — rigorosamente su Telegram — manda i suoi saluti all’Occidente con il solito monito: “Moriremo tutti”. Ora il delfino di Vladimir Putin ha ingaggiato uno scontro con Donald Trump, che di fronte alle sue minacce ha deciso di schierare due sottomarini nucleari “nelle regioni appropriate”.

Chi è Dmitry Medvedev

Nato il 14 settembre del 1965 a San Pietroburgo, Medvedev è laureato in Giurisprudenza con dottorato in diritto privato e ha iniziato a interessarsi di politica durante gli anni universitari. L’ascesa politica è iniziata nel 199, prima come amministratore locale a San Pietroburgo e poi come capo delegato dello staff presidenziale. Durante le elezioni del 2000 si è avvicinato a Putin, diventando capo del quartier generale della campagna elettorale. Nel 2005 la nomina a vice primo ministro, presidente del Consiglio per lo sviluppo dei progetti prioritari nazionali e presidente del Presidio del Consiglio. Costretto a lasciare per il limite del doppio mandato, Putin nel 2008 lo ha candidato alle presidenziali, ovviamente vinte. Nel 2012, con il ritorno di Putin al comando, Medvedev è stato nominato premier, carica mantenuta fino al 2020. In quell’anno, la nomina nel nuovo ufficio di vicepresidente del Consiglio di sicurezza.

Frasi fatte, toni da catastrofe, minacce da Terza guerra mondiale: Medvedev ha fatto del disfattismo la sua nuova strategia politica. E pensare che l’Occidente, almeno all’inizio dell’invasione dell’Ucrain, lo ascoltava pure con una certa attenzione. Ogni sua invettiva diventava un titolo d’agenzia. Poi si è capito: il vero potere sta altrove, lui è solo rumore di fondo. Le sue roboanti dichiarazioni anti-occidentali rappresentavano un tentativo di rientrare nelle grazie di Putin. In altri termini, il cinquantanovenne sta tentando di ritagliarsi il ruolo di falco ultranazionalista.

La linea è chiara, così come i toni. “Mi viene spesso chiesto perché i miei post sono così duri. La risposta è che li odio. Sono bastardi e imbranati. Vogliono la morte della Russia. E finché sono vivo, farò di tutto per farli sparire”, ricorda il Corriere. Poi il repertorio: “Chi ha detto che tra due anni l’Ucraina esisterà ancora sulle mappe mondiali?”. E ancora: “Le consegne di armi straniere all’Ucraina ci avvicinano all’inverno nucleare”, “Non ci sono altre opzioni se non l’eliminazione fisica di Zelensky”. Infine la stoccata a Trump: “Può scordarsi il Premio Nobel per la Pace. Congratulazioni, signor presidente”. Fino alla tensione di questi giorni, degli ultimatum Usa che rappresenterebbero un avvicinamento verso la guerra tra Mosca e Washington.

Sembra passata un’era geologica rispetto a quando Medvedev sognava una Russia moderna, con accesso libero all’informazione. “La libertà è meglio della non libertà” il suo annuncio pieno di speranze. Così come i timidi passi verso l’apertura, come il famoso “reset” con Barack Obama e il trattato New Start sulla riduzione degli arsenali nucleari. Medvedev sembrava — o volevano farlo sembrare — il volto nuovo, quello senza passato sovietico, l’uomo giusto per una Russia pronta a guardare all’Occidente. Ma la verità si è fatta presto strada: era solo un reggente, messo lì per tenere il posto caldo. Dietro le quinte, il potere vero non lo ha mai avuto. Non godeva della stima dei silovikì, i padroni dei ministeri di forza, né incuteva alcun timore. E così, nel 2012, Putin è tornato al Cremlino e lui si è accomodato alla guida del governo, formalmente secondo nella gerarchia, ma sempre più lontano dal cuore del potere.

La parabola discendente si è conclusa — almeno per ora — nel 2020, quando Putin lo ha silurato dalla carica di premier. Senza spiegazioni ufficiali. Solo indiscrezioni: chi parlava di incapacità gestionale, chi di problemi personali, con l’ombra pesante dell’alcolismo. Come evidenziato in precedenza, da allora Medvedev è vicepresidente del Consiglio di sicurezza. Carica di peso, almeno sulla carta. Ma il vero uomo forte dell’organismo era Nikolaj Patrushev, ben più potente e soprattutto tutto fuorché un amico. Con lo scoppio della guerra in Ucraina, Medvedev ha visto un’occasione: si è reinventato. Non più il giurista di San Pietroburgo, ma l’ultranazionalista a tempo pieno.

Quello che insulta “i mangiatori di rane, di salsicce e di spaghetti” e deride i leader europei in pellegrinaggio a Kiev. Una svolta sciovinista che gli sta regalando l’attenzione mediatica, ma che appare sotto controllo. Almeno per il momento.

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