“Libertà vietata”: così nei campus Usa si spegne la voce del dissenso

Il report 2025 sulla libertà d’espressione nelle università americane rivela un dato inquietante: studenti e professori si autocensurano. Il pensiero critico cede il passo al silenzio conforme

“Libertà vietata”: così nei campus Usa si spegne la voce del dissenso
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C’è un silenzio strano che attraversa l’America. Non è quello del deserto, non è il silenzio dell’ignoranza. È il silenzio dell’autocensura. È un silenzio coltivato, educato, imposto da un nuovo conformismo che si traveste da progresso. È il silenzio che regna nei campus universitari americani, nei luoghi che una volta erano i templi della parola libera, dello scontro delle idee, del pensiero che arde.

Il report 2025 del College Free Speech Rankings, firmato da FIRE e College Pulse, è una cartografia di questo nuovo mondo. Ha la lucidità fredda di una radiografia e la brutalità di una diagnosi senza cure facili. Racconta di studenti che tacciono per paura, di professori che evitano i temi scomodi, di amministrazioni universitarie che non difendono il diritto a essere impopolari.

Non è una storia nuova, ma ora ha numeri, nomi, tendenze. Il 17% degli studenti dichiara di non sentirsi libero di parlare almeno un paio di volte a settimana. Il 54% dice che non si può discutere in modo aperto del conflitto israelo-palestinese. Il 32% trova accettabile, almeno raramente, l’uso della violenza per impedire un discorso. Aumentano i casi di censura, le proteste che diventano interdizione, gli inviti ritirati, le piattaforme negate. La parola, in troppe università, è un privilegio da concedere solo a chi la pensa nel modo giusto.

Le classifiche non mentono. In cima ci sono atenei pubblici come la University of Virginia, Florida State, Michigan Tech. In fondo, come zavorre di una cultura che ha rinunciato alla tolleranza, troviamo Harvard, Columbia, NYU, Penn, Barnard. I migliori non sono quelli dove tutti sono d’accordo, ma quelli dove si accetta l’idea che il dissenso sia parte essenziale della convivenza.

La mappa dei campus rivela un paradosso: più un’università è blasonata, più sembra incapace di difendere la libertà di parola. Harvard, per il secondo anno consecutivo, è l’ultima della lista. E non per un caso. Ha collezionato venti episodi di censura negli ultimi anni, tra deplatforming, sanzioni a studenti e professori, eventi interrotti. Peggio ancora: ha perso il coraggio di difendere il dissenso. Perché, alla fine, il nodo non è la parola, ma l’idea che la parola debba essere “sicura”, non disturbare, non ferire.

Questo è il cuore della questione. Si è diffusa una cultura della “sicurezza” che si traduce in intolleranza mascherata da sensibilità. L’università dovrebbe essere il luogo in cui ci si mette in discussione, in cui si accetta il rischio di cambiare idea, in cui si affronta il conflitto verbale come palestra del pensiero. Invece si costruiscono recinti morali, si disegna una zona franca dove tutto ciò che è considerato offensivo viene bandito.

La miccia che ha fatto esplodere la nuova crisi è stata la guerra in Medio Oriente. Dopo il 7 ottobre 2023, con l’attacco di Hamas a Israele e la risposta militare a Gaza, i campus sono diventati campi di battaglia simbolici. Gli accampamenti pro-Palestina hanno innescato reazioni a catena: eventi annullati, studenti espulsi, presidenti dimissionari, forze dell’ordine nei cortili. E nel frattempo è aumentata la paura di parlare, il sospetto reciproco, la pressione a schierarsi. In alcune università, come Columbia e Barnard, il numero di studenti che si autocensura quasi ogni giorno è triplicato in poche settimane.

Non si tratta di difendere una parte politica. Si tratta di difendere l’idea che un’università debba essere il luogo in cui tutte le parti, anche le più scomode, possano esprimersi. Non è un appello al relativismo, ma al rigore. Non è un invito all’anarchia, ma al metodo. Chiunque abbia passato del tempo in una biblioteca sa che la verità è sempre in discussione, che la libertà di parola è l’unico antidoto contro l’oscurantismo.

Ma c’è una lezione più profonda, che va oltre le statistiche. L’università, oggi, è lo specchio della democrazia che verrà. Se i giovani imparano che il dissenso è pericoloso, che la parola è un rischio da evitare, allora tra dieci anni ci troveremo in una società più fragile, più chiusa, più dogmatica. Una società dove la libertà sarà un ricordo e non un esercizio quotidiano.

Il rischio non è l’estremismo. Il vero pericolo è l’uniformità. È l’idea che esista una sola verità ammissibile, una sola morale condivisa, una sola voce autorizzata. È questa la lezione che dobbiamo combattere. Perché una democrazia senza dissonanza è una democrazia già finita.

Ecco perché questo

report non è solo un elenco di numeri. È una mappa per chi crede ancora che le idee siano più forti dei divieti. È una sveglia per chi pensa che il futuro abbia bisogno di uomini liberi, non di studenti addestrati al silenzio.

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