Cronaca nera

Un omicidio dimenticato nella notte delle bombe

Nella notte tra il 27 e il 28 luglio 1993, mentre a Milano e Roma esplodono le bombe, a Frascati viene ammazzato Mauro Rocchetti. Viene bollato tutto come un regolamento di conti. Ma potrebbe non essere così e a raccontarci il perché è il questore di Siena Pietro Milone

Un omicidio dimenticato nella notte delle bombe

La notte tra il 27 e il 28 luglio di 30 anni fa resterà per sempre uno dei capitoli più oscuri della storia repubblicana. In via Palestro, a Milano, una Fiat Uno imbottita di esplosivo devasta un padiglione della Galleria di Arte Contemporanea e uccide 5 persone. Quasi contemporaneamente, a Roma, due ordigni sconvolgono la notte d’estate deflagrando di fronte alle Basiliche di San Giovanni in Laterano e San Giorgio in Velabro. Un terzo ordigno sarà ritrovato inesploso nei pressi del Quirinale, all’interno di un’auto.

Ma c’è un fatto accaduto quella notte – probabilmente non a caso – che è stato immediatamente dimenticato. Un omicidio. A Frascati, località a pochi chilometri dalla Capitale sconquassata dalle esplosioni.

“Siamo carabinieri”. Due uomini, scesi da una panda scura con lampeggiante e insegna dell’Arma su almeno una fiancata, si presentano alle 4 di notte a casa di Mauro Rocchetti, pregiudicato di 42 anni agli arresti domiciliari per spaccio. Quattro colpi di pistola: due in faccia, uno allo sterno, uno alla mano sinistra. Rocchetti cade agonizzante sul vialetto di casa, morirà in ospedale. Il figlio, Alessandro, vede la panda dileguarsi. È lui a raccontare del lampeggiante e dell’insegna dell’Arma.

Nei giorni seguenti, i pochi giornali che si occupano della vicenda bollano tutto come una resa dei conti tutta interna al mondo della droga. Ma a distanza di 30 anni possiamo dire che dietro questo omicidio potrebbe esserci altro.

IlGiornale.it ha avuto l’opportunità di intervistare l’attuale questore di Siena, dottor Pietro Milone. Perché proprio lui? Cosa c’entra con l’omicidio Rocchetti? Ci arriviamo.

Prima di proseguire, occorre spendere due righe per spiegare chi sia Pietro Milone. Classe 1961, romano, nel 1990 arriva alla Questura di Roma, al Centro Interprovinciale Criminalpol “Lazio-Umbria”, dove è a capo di un nucleo di polizia giudiziaria costituito appositamente per disarticolare la Banda della Magliana, che tre anni dopo sarà praticamente smantellata con l’Operazione Colosseo. Operazione permessa dalle rivelazioni di uno dei capi della Banda, Maurizio Abbatino, arrestato a Caracas, Venezuela, il 24 gennaio 1992. A mettergli le manette ai polsi c’è anche Pietro Milone.

Cosa c’entra tutto questo con l’omicidio di Mauro Rocchetti? Leggendo la stampa dell’epoca, assolutamente nulla. In realtà, la carriera criminale di Rocchetti era più articolata e ad un certo punto incrocia quella della Banda della Magliana.

“Rocchetti – ci racconta il dott. Milone – faceva parte di quell’entourage di persone che erano coinvolte nei traffici di droga romani e che, all’occorrenza, venivano utilizzati anche da esponenti della Banda della Magliana”.

L’attuale questore di Siena precisa che però Rocchetti non era un appartenente al gruppo. Piuttosto gravitava in quella costellazione criminale e, soprattutto, viveva in quello che all’epoca poteva essere considerato un feudo di Enrico Nicoletti, considerato il cassiere della Banda. Perché sottolineiamo questo particolare?

“All’epoca – racconta Milone – qualcuno diceva che Rocchetti fosse in possesso di registrazioni compromettenti che riguardavano Nicoletti e presunti appartenenti alle forze dell’ordine. Registrazioni che avrebbero dimostrato come Nicoletti, di fatto, pagasse qualcuno per essere lasciato in pace. Ma è una pista che non ha mia portato ad alcun riscontro”.

A scavare in questa direzione ci pensò il pm Andrea De Gasperis, recentemente scomparso. Queste voci, unite alla testimonianza del figlio di Rocchetti, imponevano una serie di verifiche. Furono controllati i registri di entrata e uscita degli automezzi dalla locale stazione dei Carabinieri e venne fatto un controllo sulle persone presenti quella notte in caserma, ma non si arrivò a nulla.

C’è però un’altra pista. E qui qualche riscontro sembra esserci.

“In quel periodo Rocchetti, come molti altri, era attenzionato da noi”. Il riferimento di Pietro Milone è al già citato nucleo formato per contrastare la Banda della Magliana. “Attraverso alcune attività su di lui, arriviamo sulle tracce degli assassini di Renatino De Pedis”.

Enrico De Pedis, boss della fazione dei “testaccini” della Banda, uomo dalle entrature trasversali, molto ben inserito negli ambienti della politica e del Vaticano, viene ucciso a Roma il 2 febbraio 1990 da due killer che nel 1993 sono ancora ignoti. Chiediamo al dott. Milone se Mauro Rocchetti fosse una sua fonte, ma il questore nega: “Rocchetti, per noi del nucleo, era un personaggio importante, di una caratura criminale non indifferente, ma non era una fonte”.

Ad arrivare ai killer di De Pedis sarà lo stesso Pietro Milone che con pervicacia seguirà una pista che si rivelerà un successo. Le indagini lo portano in Toscana, nei dintorni di Livorno. Lì è determinante l’incontro con un giovane poliziotto da poco trasferito dall’aeroporto di Fiumicino. Il ragazzo, infatti, ricordava di aver fermato per un controllo un personaggio difficile da dimenticare: Libero Mancone, appartenente alla Banda. L’uomo in quell’occasione era andato a prendere due uomini che arrivavano da Pisa: Dante Del Santo e Alessio Gozzani. Era la sera del 1 febbraio 1990. Il giorno dopo, in via del Pellegrino, in pieno centro a Roma, De Pedis veniva colpito alle spalle da un proiettile sparato da un killer mancino.

La pista diventa concreta. Milone e i suoi raccolgono tutti gli atti risalenti all’epoca dell’agguato: “Tra gli atti delle persone identificate ma mai sentite a verbale c’era una giovanissima donna magistrato. La donna era presente in via del Pellegrino. Noi l’abbiamo cercata e sentita: lei confermò di aver assistito all’omicidio e confermò che il killer fosse mancino. L’aveva visto anche in volto [era senza casco, ndr]”.

A questo punto si impone un confronto all’americana: “Gozzani nel frattempo era morto nel corso di una sparatoria, quindi le facemmo vedere solo Del Santo, in mezzo ad altre cinque persone. La donna lo riconobbe”.

Si chiude così un caso rimasto aperto per tre anni. Una cosa però è certa: le modalità dell’omicidio – decisamente anomale per un regolamento di conti nel mondo della droga – fanno pensare che qualcuno fosse venuto a conoscenza del possibile collegamento tra l’arresto degli assassini di De Pedis e il ruolo di Rocchetti. E che gliel’abbia fatta pagare.

Che si tratti di un omicidio dalle modalità anomale lo conferma lo stesso Milone: “La peculiarità di questo omicidio è il momento in cui viene portato a termine. Quella notte c’era il caos a due passi e chi ha agito era ben consapevole che le indagini sarebbero state fatte in fretta e lacunosamente. E così è stato. Nessuno ha fatto sopralluoghi nell’immediatezza”.

C’è di più: “Rocchetti era molto guardingo. E invece è uscito di casa tranquillamente. Evidentemente il trucco degli aggressori è stato molto ben congegnato”. Oppure, aggiungiamo noi, Rocchetti conosceva i suoi assassini e si fidava. A distanza di tanti anni difficile dirlo. Si possono fare ipotesi e ci si può porre delle domande.

Certo, se l’omicidio è da ricondurre all’arresto degli assassini di De Pedis, sarebbe interessante scoprire chi possa aver indicato di colpire un uomo agli arresti domiciliari e che ad oggi è ancora un perfetto signor nessuno.

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