
Bello come il sole e buono come il pane. È in questo modo che tutti coloro che l’hanno conosciuto descrivono Marco Vannini da Cerveteri, che amava la vita e voleva entrare in Aeronautica. Marco che aveva solo 20 anni quella notte del 17 maggio 2015 in cui è morto in una sequela di versioni e omissioni, che in tribunale hanno portato alla condanna dell’intera famiglia Ciontoli, ovvero la fidanzata di Marco e i parenti stretti di lei. Le ore e le conseguenze di quello che a processo è stato definito un omicidio volontario vengono descritte minuziosamente nel libro “L’ultima notte di Marco - Verità e bugie sul caso Vannini” (Piemme), secondo lavoro a quattro mani per Giulio Golia, inviato de Le Iene, e Francesca Di Stefano, autrice e regista del programma. Un anno fa era uscito il loro “I mostri di Ponticelli”.
Spiega Golia: “Secondo me, questo nuovo libro è una sorta di vademecum delle cose che non vanno fatte. Bisogna intervenire immediatamente: se vogliamo dare un messaggio alle nuove generazioni - si parla ogni giorno di violenza, di gruppi armati di ragazzini, di maranza - si devono rendere conto che ogni azione ha una reazione e una conseguenza. Se io non lo so e vengo coperto da qualcuno, i genitori o la scuola, per me è tutto normale. La vita non è un videogioco e ti mette davanti a delle scelte”.
L’ultima notte di Marco Vannini
Il volume di Golia e Di Stefano, dedicato allo stesso Marco Vannini, è un libro doloroso ma al tempo stesso necessario. I processi giungono all’opinione pubblica attraverso il filtro dell’informazione e vengono selezionati i fatti più rilevanti, non tutti i fatti, che invece possono essere contenuti in un libro o meglio ancora negli atti, che però non sono accessibili a ogni persona. Come chiosa Di Stefano: “Come società, dobbiamo accettare il fatto che alcuni esseri umani commettono cose orribili e nasconderle non aiuta nessuno. Si discute sempre dell’importanza della memoria, del racconto e della testimonianza per evitare che il male si ripeta. Il racconto è necessario, anche quando dobbiamo raccontare ciò che non vorremmo essere come umanità. Le immagini e i contenuti crudi sono difficili da digerire e difficili da mandare in onda. E ci interroghiamo sulla sensibilità del pubblico, perché ognuno è diverso. Però è importante farlo perché non solo ci mettono di fronte alla realtà di ciò di cui sono capaci gli esseri umani, ma anche perché rappresentano quei piccoli dettagli che possono spiegare come siano andate veramente le cose”.
Per Golia, “la narrazione può avvenire in molti modi, ma nel momento in cui c’è un documento essenziale, che può cambiare le carte in tavola, perché non spiegarlo cercando di non enfatizzare l’immagine e coprendo ciò che è ‘troppo’?”. L'informazione quindi deve essere data, con parole, con immagini. “L’immagine ha una potenza, una forza intrinseca che non è paragonabile a nient’altro. E in fondo la nostra società si è sviluppata proprio sulla potenza dell’immagine”, dice Di Stefano.
C’è poi una questione non secondaria: in un caso di cronaca nera tipo, spesso si dà ampio spazio alla narrazione incentrata sul killer o presunto tale, raramente sulla vittima, che in quanto tale non ha più voce. “Quando abbiamo incontrato per la volta la famiglia Vannini - spiega Golia - ci siamo sentiti parte integrante della storia. Avevamo letto le carte, avevamo ricostruito tutto, avevamo notato la dignità con cui Marina e Valerio raccontavano le cose: ci hanno però molto colpito gli occhi di Marina. Abbiamo scelto di incontrarci, dopo aver visto la sua reazione alla sentenza di primo grado. Era un caso che andava raccontato: il viso e il sorriso di Marco, quel movimento a Cerveteri che si era già creato erano importanti. La famiglia Vannini è una famiglia come tante, di lavoratori perbene che non chiedevano altro che giustizia a sapere cosa fosse successo in quella casa”. Incalza Di Stefano: “È stata Marina ad attirarci inconsapevolmente in questa storia: vedendo la sua reazione da leonessa in quell’aula è stata catalizzata la nostra attenzione prima ancora di conoscere i dettagli della vicenda”.
Golia e Di Stefano fanno qui quindi qualcosa di molto diverso dal solito: ridanno la voce a Marco Vannini e soprattutto la ridanno attraverso gli occhi di Marina Conte, la mamma di Marco che insieme con il papà Valerio Vannini, oltre ad avere tantissimi virgolettati nella narrazione ha scritto anche la postfazione. “L’attenzione è puntata su Marco - chiarisce Di Stefano - perché spesso nella cronaca nera ci si dimentica un po’ delle vittime e l’attenzione ricade soprattutto su chi ha commesso il delitto e le sue motivazioni. Ma quello che noi volevamo fare, a distanza di dieci anni dalla morte di Marco, era ricordare lui, ricordare chi era, anche come forma di rispetto nei confronti dei genitori, con cui abbiamo costruito negli anni un rapporto molto intenso”.
Alla ricerca della verità
La ricerca della verità per Marina Conte e Valerio Vannini è durata 6 anni: tanto ci è voluto fino al pronunciamento della Cassazione nel 2021. Marco Vannini era stato ferito da un colpo di pistola mentre si trovava in casa dei Ciontoli a Ladispoli: era andato lì per stare con la fidanzata Marina Ciontoli, con cui aveva una relazione dal 2012, e con la famiglia di lei. “Il primo appello, con la derubricazione del reato a omicidio colposo, chiaramente ha molto scioccato. Era un’opinione diffusa e comune che non fosse adeguato, non semplicemente in termini di pena ma per la riqualificazione del reato in sé. Ciò che era accaduto non poteva essere incasellato in quella definizione. I giudici sono esseri umani e come tutti possono sbagliare: la magistratura non possiede il dogma dell’infallibilità. Per fortuna abbiamo in Italia un sistema giudiziario che permette di riparare a eventuali errori con i vari gradi di giudizio prima e poi anche con il principio di revisione”, racconta Di Stefano.
Inizialmente l’accusa per Antonio Ciontoli, padre di Martina che avrebbe impugnato la pistola e sottufficiale nel Raggruppamento Unità e Difesa della Marina Militare Italiana, era di omicidio colposo, ma alla fine è stato condannato in Cassazione a 14 anni per omicidio volontario con dolo eventuale. Martina e il fratello Federico Ciontoli, la madre Maria Pezzullo sono stati condannati invece a 9 anni e 4 mesi per concorso in omicidio. È stata assolta Viola, la fidanzata di Federico che era con loro quella notte. “Antonio Ciontoli ha portato dietro di sé tutta la sua famiglia. Lo ha detto anche Marina: non vince nessuno quando un’intera famiglia finisce in carcere”, specifica Di Stefano.
Un grosso peso nel giudizio l’hanno avuto i ritardi nel contattare i soccorsi e il fatto che ai soccorritori non sia stato detto subito che Vannini era stato colpito con un’arma da fuoco: per i giudici Marco si poteva salvare senza quel castello di mille versioni proposte dai Ciontoli. “Hanno perso tutti perché Marina e Valerio hanno perso un figlio e dall’altra parte hanno perso la libertà perché sono in carcere. Però i Ciontoli, quando usciranno, magari con qualche difficoltà, potranno rifarsi una vita, in particolare i figli. Non è stato semplice sentire la sentenza, a nessuno piace mandare in carcere le persone”, aggiunge Golia. E Di Stefano: “Quando noi cronisti abbiamo ascoltato la sentenza in Cassazione, che per i Ciontoli è diventata immediatamente esecutiva mentre i Vannini erano sollevati che l’iter si fosse concluso, ci siamo salutati con un grande magone, senza vittorie e celebrazioni: era una tragedia su tutti i fronti, una tragedia che fa riflettere. Marco non torna più indietro e due ragazzi di vent’anni passeranno i migliori anni della loro vita in carcere. C’è però che potranno utilizzare quel tempo per riflettere su cosa è accaduto e cosa hanno fatto quella sera”.
L’importanza dell’informazione esaustiva
Ci sono tanti interrogativi che ancora aleggiano nell’aria anche dopo la sentenza passata in giudicato. Che fine hanno fatto i vestiti che Marco Vannini indossava quella sera, in particolare una maglietta? Perché non sono stati ascoltati tutti i vicini dei Ciontoli? Marco Vannini ha visto la canna della pistola nella vasca o è stato portato lì in un secondo momento? “Questo caso - illustra Golia - presenta, forse per la prima volta, un documento importantissimo: quasi 6 ore di intercettazione all’interno della caserma, dove hai una serie di profili dei soggetti che ti lasciano anche un po’ di sconforto, per via della freddezza con cui si raccontano determinati dettagli, quasi in modo per accordarsi con il detto-non detto, lo sguardo su un fidanzato appena morto o su un figlio ‘acquisito’ ti lascia nello sconforto. Le telefonate in cui senti Marco urlare… la documentazione c’era. È la documentazione a supporto di ciò che è accaduto che ti fa rendere conto”. Aggiunge Di Stefano: “Che in quattro possano aver creduto nella bugia del colpo d’aria ti fa interrogare. Tanto’è che negli interrogatori la pm per prima rimane basita”.
La narrazione di Golia e Di Stefano si snoda tra intercettazioni, versioni fornite dai Ciontoli, testimonianze di tantissime voci, dai vicini appunto fino ai soccorritori e ai militari. Il tutto per fornire un quadro esaustivo dei fatti. Perché, viene scritto all’inizio del libro, la storia di Marco Vannini ci riguarda tutti. “È una storia che accadere a tutti, perché Marco in realtà è figlio di tutti.
Era un ragazzo di vent'anni ed è inimmaginabile che un figlio vada a casa della fidanzata, quindi in un luogo sicuro, e venga colpito con un’arma da fuoco dal padre della fidanzata. È una storia che non dovrebbe mai essere raccontata, i fatti sono andati così, ma in questo senso è una storia di tutti”, conclude Golia.