"Vi svelo i segreti nella mente del Mostro di Foligno"

Nel podcast del criminologo Francesco Esposito la vicenda del Mostro di Foligno. Luigi Chiatti è stato condannato a 30 anni per gli omicidi di Simone Allegretti e Lorenzo Paolucci

"Vi svelo i segreti nella mente del Mostro di Foligno"

Il 4 ottobre 1992 un bambino scomparve nelle campagne umbre. Aveva 4 anni e si chiamava Simone Allegretti. Fu ritrovato morto un paio di giorni più tardi, era stato strangolato e accoltellato. Rappresentò l’inizio di un incubo chiamato Mostro di Foligno. Un anno più tardi venne ucciso con le stesse modalità Lorenzo Paolucci, 13 anni. Dopo un anno di lettere e telefonate anonime - alcune vere, firmate “il Mostro”, altre false - gli inquirenti percorsero una traccia di sangue e risalirono a Luigi Chiatti.

Classe 1968, Chiatti era il figlio naturale di una donna che rinunciò a lui, il quale, a propria volta, venne adottato ufficialmente nel 1975. Era un geometra residente a Foligno e per i suoi delitti fu sottoposto a tre gradi di giudizio tra il 1994 e il 1997: in primo grado gli vennero comminati due ergastoli, in appello venne ritenuto semi-infermo di mente per cui la pena venne ridotta a 30 anni, e la Cassazione confermò l’appello. È stato nel carcere di Prato fino al 2015, e poi è stato trasferito in una Rems.

“Il suo movente è lui stesso”, spiega il criminologo Francesco Esposito. Suo il podcast “Il Mostro di Foligno - La Mente di Luigi Chiatti”, in cui analizza il profilo del killer in maniera al tempo stesso accademica ma anche di semplice fruizione.

Perché Luigi Chiatti viene definito un serial killer?

“Perché ha ucciso in due episodi distinti, tra i quali c’è il cosiddetto ‘periodo di raffreddamento’. Ha scelto le vittime in maniera omogenea: erano entrambi bambini, o meglio un bambino e un preadolescente, comunque due persone al di sotto dei 14 anni. Aveva una ritualità, con la quale comunicava in maniera consapevole e inconsapevole con gli inquirenti: biglietti e telefonate. Il movente è egli stesso, con il suo modus operandi, le comunicazioni, la ritualità e la scelta di una tipologia di vittima coerente con il movente”.

Come sceglieva le sue vittime?

“Venivano scelte in base all’opportunità. È un predatore, ma è anche piuttosto pigro e non così scaltro come le leggende nate intorno a lui vorrebbero. Le vittime eran due minori, come già accennato, quindi con poca capacità di reagire, e i bambini in quel momento si trovavano in contesti che lui conosceva, in cui si sentiva tranquillo. Incarna una tipologia di predatore opportunistico”.

Viene arrestato il giorno stesso del suo secondo omicidio, commettendo l’“errore” di lasciare una scia di sangue. Voleva essere fermato?

“Il suo è stato un errore operativo, non una resa. È ambivalente: sfida gli inquirenti ma non vuole essere catturato, vuole essere catturato e sfida gli inquirenti in un circolo vizioso. Ha un desiderio autentico di visibilità e in questi casi si corrono dei rischi. È una situazione veramente delicata con dei margini, è sfocata”.

Quali sono le caratteristiche degli omicidi del Mostro di Foligno?

“Chiatti agisce in luoghi a lui comodi e noti. Strangola le sue vittime e le accoltella. Questo modus operandi suggerirebbe un certo piacere nell’uccidere: la coltellata non è solo una coltellata, ma in generale i killer di questo tipo godono quando la sferrano, tant’è che in alcuni casi, ma non in questo, si parla di overkilling: si tratta del piacere nel possesso della vittima. Poi c’è quello che in gergo chiamiamo ‘acting out’, ovvero il fatto che scrive biglietti in cui si firma ed effettua telefonate, promette di colpire e quindi evidenzia un bisogno di essere riconosciuto”.

Come mai decise di identificarsi da solo come “il Mostro”?

“È il potere della narrativa, la firma come fosse un selfie. Era il suo palcoscenico, il personaggio in cui gli piaceva identificarsi, quello verso cui le persone provavano repulsione e paura. Era, in un certo senso, il suo nutrimento”.

Se non fosse stato arrestato, avrebbe potuto colpire ancora?

“Sì. In gergo tecnico si parla di ‘soggetto con alta recidività’. Non mostra pentimento, ha un periodo di raffreddamento che è coerente con la serialità e con il ripensamento. Era in una fase in cui, soprattutto dopo il primo omicidio, potenzialmente, avrebbe potuto arrivare al climax”.

Nel podcast parla di devianza. Qual è stato il ruolo di una presunta devianza sulla formazione del killer?

“A Chiatti è stata data la semi-infermità. Di solito i serial killer di questo tipo presentano grossi buchi nell’infanzia, che ha portato a un’identità plasmata e riplasmata male. Potrebbe aver cercato di aggiustare la propria identità, ma avrebbe messo i pezzi nei posti sbagliati”.

Oggi Chiatti si trova in una Rems nonostante abbia terminato di scontare la sua pena. perché?

“Esiste un dibattito aperto molto importante: cosa possono fare e dove possono andare, dopo la fine della pena, i soggetti che hanno mostrato una tale pericolosità sancita da un giudizio in tribunale? C’è chi parla di micro-manicomi, ma il punto è che bisogna fare i conti con il fatto che i serial killer difficilmente rinsaviscono.

C’è tanto da fare e questo è un discorso che ci riguarda tutti. La Rems potrebbe essere al momento, data la semi-infermità riconosciuta, il posto migliore in cui scontare una pena, ma si tratta di decisioni che si prendono in udienza”.

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