Addio Bertarelli lo stroncatore più divertente del cinema

Addio Bertarelli lo stroncatore più divertente del cinema

A che cosa serve un uomo? No, scusate, «servire» non è verbo umano, si applica agli schiavi, malgrado loro, e agli zerbini, con loro servile giubilo. «Fare», piuttosto, «fare» è il verbo più umano. Dunque che cosa fa un uomo, se è davvero tale? Una cosa sola: migliora gli altri uomini. E a volte gli basta poco. Gli basta essere com'è, perché nel suo essere com'è ci sono già tutti gli ingredienti di un uomo vero. E com'è un uomo, se è davvero un uomo? È una persona che dà sempre gratis e prende sempre in prestito.

Massimo Bertarelli ha dato sempre gratis, a chi gli era vicinissimo come a chi lo sfiorava appena. Ha dato intelligenza, avendo cura di scaldarla con la sensibilità, per non renderla fredda, distante, prevaricatrice. Ha dato quella cosa che una volta si chiamava «uso di mondo», e che consiste nel saper comportarsi con tutti, la star di Hollywood e il cameriere, il mendicante e il Direttore (Indro Montanelli, è ovvio, e «fin dal primo numero», come recita il mantra di chi con le pagine di questo Giornale ha avvolto e avvolge ancora la quotidianità della propria esistenza) nello stesso, identico modo, senza classifiche, senza corsie preferenziali. Ha dato profondità di sentimenti, l'amore per la propria famiglia, l'affetto per gli amici, la condivisione del bene e del male con chi meritava e anche con chi soltanto non demeritava (perché, seppure discretamente, senza enfasi, senza darlo a vedere, Massimo era in ciò di manica larga, non come per i voti ai film...). Ha dato l'esempio, dentro queste mura, che nel corso dei decenni sono diventate per lui una seconda casa, e fuori.

Dando sempre gratis, Massimo ha preso sempre in prestito. Non ha intascato, non ha sgomitato, non ha pianificato, non ha accampato diritti né sfruttato rendite di posizione. Ha preso in prestito, per esempio, non una carriera (la carriera è qualcosa che sale, che scalpita, che scala, che vuole guardare dall'alto al basso e poi ancora più in alto, mentre Massimo camminava in piano, in linea con il grado zero della vita, quello dove tutti valiamo uno e infinito), bensì un percorso professionale rettilineo, fedele a se stesso, alle sue passioni.

Da quando, all'inizio degli anni Sessanta, lavorava al Guerin Sportivo, lo sport era il suo sport preferito. Se ora scrivessi che del resto, come si dice, lo sport è la metafora della vita, lui, che sbertucciava i luoghi comuni, mi manderebbe al solito paese, ridendo di gusto da sotto il suo nasone. Ma è un fatto che nello sport leggiamo una sceneggiatura, una trama, un disegno. Quindi uno spettacolo.

L'altra passione del Massimo giornalista: lo spettacolo. Il teatro, in tono minore; la televisione, ad alto volume, con la fulminea partecipazione a un quiz di Mike Bongiorno e la continuativa frequentazione con Cinematografo, condotto da Gigi Marzullo; il cinema, appunto, sul grande schermo che lui ha scandagliato centimetro per centimetro, fotogramma per fotogramma. Una frizzante commedia rosa è stata la sua storia con Marinella, la moglie adorata, prima di trasformarsi nel plumbeo dramma dell'addio a lei, quattro anni fa (da lì la Morte ha cominciato subdolamente a corteggiarlo, con la complicità della sua amica più crudele, la Malattia, e alla fine se l'è preso, quella cagna in calore, un pezzo alla volta).

Un giallo è stata quella vecchia vicenda legata al gioco, il suo unico vizio che adesso mi pare quasi virtuoso (per il resto, mai toccata una sigaretta, mai bevuto più di una birra piccola o di un bicchiere di vino al giorno), in cui la soluzione del «caso» fu affidata all'ispettore Montanelli... E quante scene comiche, qui in redazione, da un piano all'altro, da una direzione all'altra: lo sfottò per chi s'atteggiava a sopracciò, la battuta minimalista, in poche sillabe, talvolta in una sola parola (come per le prime della Scala, popolate da «matrone», le signore ingioiellate, e da «pinguini», i signori in frac), la sottolineatura parodistica dello strafalcione di un fattorino, del refuso di un collega, della banalità pronunciata dallo speaker del telegiornale.

Perché Massimo coniugava l'acutezza nel cogliere il particolare sghembo, grottesco, alla bonomia nel promuoverlo a piccolo colpo di genio, anche se... involontario. E quante partite del nostro Milan viste insieme, con la partecipazione dell'innamorato o, ultimamente, il distacco dell'amante tradito. E quante serate fuori a cena, al solito posto.

L'ho detto e lo ripeto: gli

stavano sullo stomaco i luoghi comuni. E allora, caro Massimo, ti ricordo che sono sempre i migliori che non se ne vanno. Si assentano per un po', e chi ha in sorte di fermarsi (ancora un po') sa di averli vicini per sempre.

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