Adesso basta con la politica succube dei pm

Adesso basta con la politica succube dei pm

Ultimo punto, negativo: le vicende giudiziarie, gli scandali, i processi, le polemiche. Non giriamoci attorno. Veniamo da venticinque anni di subalternità culturale della politica rispetto alla magistratura. E la colpa è dei politici, non dei giudici. Da Mani pulite in poi appunto un quarto di secolo fa la politica si è come ripiegata. Impaurita.

Si è affermata la presunzione di colpevolezza, anziché d'innocenza. Si è accettata l'equazione folle per la quale un avviso di garanzia comporta le dimissioni del politico. Il che è incostituzionale, illogico, immorale.

Vi sono due approcci completamente sbagliati a questo tema. Da un lato quello del centrodestra al governo per dieci anni, che, partendo dalle critiche generali al sistema della magistratura, arrivava a fare norme spesso incentrate sui propri interessi piuttosto che sulle reali necessità del mondo giudiziario leggi ad personam, che producevano nell'opinione pubblica e nel dibattito politico l'effetto opposto; dall'altro lato quello antiberlusconiano, che brandiva l'arma giudiziaria come strumento per mandare a casa l'allora premier, in nome di un principio comprensibile dal punto di vista etico ma controproducente dal punto di vista politico. Io ho sempre detto che volevo vedere Berlusconi fuori dalla politica non a causa delle sue vicende giudiziarie, ma perché sconfitto alle elezioni. Mi piace l'idea di mandare a casa gli avversari, non di mandarli in carcere.

Quando però qualcuno dei nostri ha ricevuto richieste di interrogatori o avvisi di garanzia, nessuno ha evocato il legittimo impedimento o richiesto norme ad hoc: noi abbiamo detto, sempre, che stavamo dalla parte dei giudici. Ecco perché nel delicato rapporto giustizia-politica abbiamo compiuto una inversione a U, arrivando a rovesciare il paradigma.

Tra le svolte che rivendico al mio governo c'è quella di andare in aula e dire ad alta voce e con forza: per noi un sottosegretario che riceve un avviso di garanzia non deve dimettersi automaticamente. Se ha motivi di opportunità politiche, che sia o meno indagato, allora fa bene a dimettersi. Ma non può essere scontato che lo faccia. Contemporaneamente, abbiamo fatto di tutto per accelerare i processi, assunto finalmente nuovo personale nei tribunali, implementato la digitalizzazione. Non ci siamo chiusi a riccio contro la giustizia, ma abbiamo rispettato la separazione dei ruoli collaborando attivamente in modo che i tempi dei processi si abbreviassero.

Anche perché la grande maggioranza dei magistrati italiani è composta da professionisti impeccabili, formati in modo molto serio e dotati di competenze e preparazione. Poi ci sono le eccezioni, è ovvio: poche persone obnubilate dal rancore personale che collezionano indagini flop e che provano a salvare la propria immagine attraverso un uso spasmodico della comunicazione e del rapporto privilegiato con alcuni giornalisti.

È vero che il sistema di autogoverno che si sviluppa intorno al Csm potrebbe funzionare meglio: c'è qualcosa che non torna in Italia se le correnti, che sono state esautorate nella vita dei partiti, rimangono decisive per la carriera dei magistrati. Ma è anche vero che ci sono alcune professionalità straordinarie nel mondo togato che ci hanno consentito di ottenere come sistema-paese successi anche a livello internazionale.

Tuttavia c'è un vezzo culturale che per me è vizio sostanziale nell'atteggiamento di alcuni magistrati. Me ne rendo conto in Sala verde di Palazzo Chigi quando incontro l'Associazione nazionale magistrati guidata dal suo presidente, Piercamillo Davigo. E dopo i giudici pretendo di incontrare allo stesso modo anche gli avvocati, perché la giustizia non la esercitano soltanto i magistrati ma tutti i professionisti del diritto. L'incontro con Davigo e la sua delegazione parte con molta freddezza ma si mantiene civile e cortese nei toni; però la sostanza concettuale che Davigo ribadisce ma che in realtà ha più volte già espresso in tutti i luoghi, in tutti i libri, in tutte le interviste è che «un cittadino assolto non è detto che sia innocente, ma solo un imputato di cui non si è dimostrata la colpevolezza». Questo principio per me è un monstrum giuridico, un'assurdità costituzionale e filosofica. E mi spiace che il capo di tutti i giudici la pensi così.

Ci sono secoli di civiltà giuridica che cozzano contro la convinzione di Davigo e contro una cultura che seppellisce l'approccio del Beccaria e i principi costituzionali ispirati a un rigoroso garantismo. Io non ho mai ricevuto nemmeno un avviso di garanzia in tredici anni di politica. Non parlo dunque per un fatto personale, ma per convinzione: non accetterò mai l'assunto per cui non esistono cittadini innocenti, ma solo colpevoli non ancora scoperti. Perché questa è barbarie, non giustizia. «La cultura del sospetto non è l'anticamera della verità: la cultura del sospetto è l'anticamera del khomeinismo», diceva Giovanni Falcone. Per me sono parole che andrebbero scolpite in ogni tribunale accanto all'espressione «La legge è uguale per tutti».

Il 5 dicembre, giorno successivo alla sconfitta referendaria, un volto noto nei dibattiti televisivi della politica quale Guido Crosetto, già sottosegretario alla Difesa e parlamentare del centrodestra, pubblica un tweet molto polemico: «Se conosco bene questo paese, nel giro di qualche settimana partirà l'attacco delle procure ai renziani doc. È uno schema classico e collaudato». Dopo tre mesi e dopo l'avviso di garanzia al ministro Lotti per presunta rivelazione di segreto d'ufficio e l'avviso di garanzia a mio padre per «concorso esterno in traffico di influenze», mi chiama Crosetto e mi fa notare la sua singolare profezia. Io però non credo ai complotti. Lo dico in tutte le sedi, in tutte le salse. Se c'è un'indagine non si grida allo scandalo, si chiede di andare a processo.

Ci siamo già passati, a vari livelli. Mio padre riceve un avviso di garanzia il primo della sua vita alla tenera età di sessantatré anni, sei mesi dopo che io sono diventato primo ministro. Tutti i giornali nazionali mettono la notizia in prima pagina, alcuni internazionali hanno quantomeno un trafiletto, e almeno tre leader stranieri mi chiedono se sono preoccupato. Vado in tv e dico chiaramente che io voglio bene a mio padre, che sono sicuro che sia pulito, ma che nella mia veste di uomo delle istituzioni sono dalla parte dei giudici: per due volte il rappresentante dell'accusa chiederà l'archiviazione, che dopo due anni finalmente è arrivata. Nulla, non aveva fatto niente.

Quindici giorni prima di un referendum sulle trivellazioni petrolifere scoppia un (presunto) scandalo in Basilicata con apertura di un fascicolo impegnativo e la richiesta di interrogare ben quattro membri su sedici del Consiglio dei ministri, uno dei quali il sottosegretario De Vincenti viene convocato come persona informata sui fatti, neanche a farlo apposta, nello stesso momento in cui deve svolgersi il Consiglio dei ministri.

Forse che il sottosegretario che per legge è chiamato a verbalizzare le riunioni di Consiglio invocherà il legittimo impedimento? Non sia mai. Noi vogliamo consentire il corso dei processi, non accampiamo alcuna scusa per ostacolare le indagini: il professor De Vincenti viene invitato a lasciare il Consiglio dei ministri e a farsi interrogare immediatamente.

Fatto sta che per una settimana questa notizia apre tutti i giornali e i notiziari ma poi un mese dopo, passato il referendum tutto finisce nel dimenticatoio e si scopre che l'inchiesta sul governo che aveva «le mani sporche di petrolio e denaro» non porta a nessuna sentenza passata in giudicato.

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