Cronache

Barba di cittadinanza La "svolta" di Gigino

Barba di cittadinanza La "svolta" di Gigino

«Buon anno a tutti amici. Iniziano gli anni '20. Ho un po' di cose da dirvi». Non sono proprio poche le cose che Luigi Di Maio ha da dire nel suo discorso alternativo di Capodanno su Facebook, 34 minuti e 29 secondi impalato davanti a una videocamera per salutare il nuovo decennio.

Sempre educato e cortese Luigino, sempre con il capello in ordine, ieri con un pullover informale beige e sempre sbarb.... Ah no pardon, sbarbato per nulla. Proprio lui! Di Maio! Il viso pulito e rassicurante di un grillismo truce che ha sempre esibito la barba anche come suggestione politica anti casta.

Colpisce il nuovo look del ministro degli Esteri, il cui viso tradisce un leggero alone scuro da mancata rasatura. Diventa persino ozioso interrogarsi se sia una scelta effimera legata all'agenda vuota durante le feste natalizie o se invece sia il segno di un cambio di immagine che coincide con il primo giorno dell'anno.

Nel decennio che ha visto trionfare il grande ritorno della barba come elemento trasversale di personalità, il leader dei Cinque Stelle aveva costruito la sua fulminante carriera politico sul viso liscio da ragazzino, contraltare della nuova classe dirigente grillina ruspante ed estremistica sfornata da centri sociali, vaffa day e tafferugli nei cantieri della Tav. Quando nel 2013 il Movimento Cinque Stelle si ritrovò a esprimere un vicepresidente della Camera, la scelta toccò quasi naturalmente su quel ventiseienne così compìto, uno dei pochi sempre ben vestito e dalle buone maniere.

Il viso glabro di Di Maio è stato anche il contrappeso visivo di Salvini in quel breve governo gialloverde dove i due vicepremier recitavano due parti distinte in commedia. Luigino il poltronista responsabile che avrebbe voluto proseguire al fianco della Lega, Matteo l'orco padano barbuto, che ruggiva da mattino a sera fino al fatidico autoaffondamento del Conte I.

Il movimento Cinque Stelle è stato forgiato da un altro barbudo, il brizzolato Beppe Grillo. In pochi anni è riuscito a portare al governo l'ex popolo viola grazie a urla, performance virulente sul palco e toni esasperati del cittadino che pretende il «fuori dai coglioni» da qualsiasi politico estraneo al proprio movimento.

E quanto deve alla propria peluria anche Roberto Fico, indicato presidente della Camera per ragioni opposte a quelle che hanno portato Di Maio stabilmente al governo. Serviva una figura da identificare con la vecchia sinistra movimentista: talvolta un pugno chiuso, due mani in tasca durante l'inno nazionale e una chioma zazzeruta fusa con un folta barba anni Settanta possono costruire un miracolo politico. L'opposto di patron Davide Casaleggio, la cui barbetta fine e biondiccia sembra quasi un timido accodarsi alla virilità ostentata dai grillini di potere. Il dimissionario Fioramonti e Patuanelli sembrano gemelli: occhiale marcato e barba visibile, quasi da confonderli. Quella curata del guardasigilli Bonafede, quella più naturale dell'ex sindaco di Livorno Nogarin, quella finto rivoluzionaria di Di Battista.

Resta una mosca bianca il senatore Nicola Morra, almeno fino ai giorni scorsi intento a radersi tutti i giorni, eterno ministro in pectore trombato sempre cinque minuti prima di andare a giurare al Quirinale. Divagazione tricologiche che lasciano il tempo che trovano. Un politico non va giudicato dal pelo sul viso, basta quello sullo stomaco.

Gabriele Barberis

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