Un big europeo, non francese

Un big europeo, non francese

Per Fiat Chrysler questa sembra la volta buona. Al momento la trattativa con Peugeot-Citroën è solo confermata e, dunque, tutt'altro che conclusa. E abbiamo tutti imparato che le grandi fusioni presentano una quantità di insidie (industriali, finanziarie, politiche, manageriali) tale da non poter darle per fatte fino a quando non si vedono le firme dei protagonisti nero su bianco. Il fallimento dell'operazione tentata sempre da Fca con Renault, di pochi mesi fa, è lì a ricordarcelo. Tuttavia l'operazione con Peugeot Citroën (Psa) parte oggi con presupposti così più solidi (meno capitale di Stato e più sinergie industriali) da fare ben sperare.

Nell'attesa, la domanda più importante, a livello di sistema Italia, riguarda gli equilibri geopolitici di questa operazione: siamo di fronte all'ennesimo colpaccio dei francesi nei confronti dell'industria nazionale? Questa volta non ci pare.

L'approccio corretto non è però quello economico-sovranista: non ci interessa il nozionismo di sapere chi ha un'azione in più o dove sia la sede legale. Quello che conta è che un'operazione di questo tipo crei realmente un campione europeo. Un gruppo industriale che abbia capitali e strategie per competere sul mercato globale con i suoi pari cinesi e americani. In questo caso, dell'auto. Mentre non deve accadere che in settori considerati strategici per gli effetti che esercitano su consumi interni, produzione e occupazione, a formarsi non sia un campione continentale, bensì uno nazionale. Francese in particolare. In Italia abbiamo visto, negli ultimi anni, tante acquisizioni di questo tipo orchestrate da Parigi. Nell'alimentare, per esempio, Parmalat è un esempio di operazione che ha giovato soprattutto agli azionisti francesi che hanno rilevato il gruppo. Le tante acquisizioni avvenute nella moda e nel lusso riguardano essenzialmente la proprietà di singoli arcinoti marchi. Mentre in settori delicati come i media e le telecomunicazioni abbiamo assistito a vere e proprie scalate, come nel caso dell'attacco di Vivendi a Mediaset e la sua conquista di Telecom, che non possono non preoccupare. Sappiamo da fonti autorevoli che i nostri servizi hanno alzato la guardia sull'offensiva francese in Italia. Che presto - sono temi di stretta attualità - potrebbe toccare anche la finanza, dalle parti di Unicredit e Generali. E persino la Borsa di Milano, finita nel mirino di Parigi.

I francesi, d'altra parte, hanno questo dna. Non è un caso che il presidente Macron abbia ottenuto per il suo commissario Ue il portafoglio di Mercato Interno e Industria, considerato quello più strategico, da cui dipende anche il settore della difesa. A Gentiloni, che sembrava in lizza, è stata poi assegnata la casella degli Affari Economici, spacciata per fondamentale, ma, in realtà, un'arma spuntata, essendo proprio l'Italia il principale osservato speciale della Commissione sul fronte dei conti pubblici.

Per questo la guardia deve restare alta e sarebbe bene che il governo si svegliasse dal suo sonno profondo. Ma non pare questa degli Agnelli e dei Peugeot un'operazione da osteggiare. Anzi. Le due famiglie industriali novecentesche con questo matrimonio sembrano mettere in campo proprio quella virtù spesso assente nelle fusioni transfrontaliere del passato.

Torino e Parigi mettono insieme chi è forte in Usa e nei brand di lusso, ma è debole nella tecnologia della transizione all'elettrico e in Asia (il gruppo Fca), con chi appare sulla carta quasi del tutto complementare (il gruppo Psa). Così si costruisce un campione europeo.

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