Mondo

Brexit, arrivano i paletti: si integra chi sa la lingua

Brexit, arrivano i paletti: si integra chi sa la lingua

Sono le 23 (ora locale) del 31 gennaio: scatta il Brexit Day. Nel condominio di un quartiere popolare di Norwich c'è intanto chi affigge manifestini celebrativi dello storico evento. Recano il titolo Happy Brexit Day, e il loro contenuto fa gridare alla xenofobia: We do not tolerate people speaking other languages than English in the flats. If you do want you speak whatever is the mother tongue of the country you came from then we suggest you return to that place («non tolleriamo persone che parlino negli appartamenti lingue diverse dall'inglese. Se vuoi parlare la tua lingua materna, del tuo paese di provenienza, qualunque essa sia, il consiglio è di tornartene a casa tua»).

Sul banco degli accusati c'è ora il governo guidato da Boris Johnson, che nell'intento di frenare i flussi migratori ha posto fra le condizioni all'ingresso nel paese, su un modello «a punti» di ispirazione australiana, proprio la conoscenza della lingua inglese: dal 2021 i lavoratori stranieri, anche comunitari, dovranno dimostrare di saperla - e di essere qualificati - se vorranno rimanere sul suolo britannico. Ci sarebbe da preoccuparsi, data l'«allergia» nostrana per le lingue straniere (inglese in testa), ma non più di tanto. Una recente ricerca di Margherita Di Salvo e Cesarina Vecchia («Gli italiani a Londra.

Le neomigrazioni da una prospettiva sociolinguistica») scaturita da 90 questionari sottoposti a italiani madrelingua, nati in Italia e risieduti (o residenti) a Londra per un certo periodo - più o meno lungo - della loro vita, la maggior parte dei quali emigrati lì dal Duemila in poi, ha restituito dati molto interessanti: il 91,1% del campione (età media: 44,2 anni), composto in maggioranza da donne (57), conosce bene l'inglese (il 7,8% lo conosce così così, l'1,1% lo conosce poco), e l'84,4%, il 90% e l'86,7% lo parla, legge e scrive altrettanto bene. Quanto al piano di contenimento dell'immigrazione voluto da Johnson, alta qualificazione a parte, si potrebbe pensare piuttosto a una patente linguistica. Potremmo sperimentarla anche noi, e magari nei confronti degli stessi inglesi: se in sei mesi non impari l'italiano, caro lavoratore britannico, ti scalo la metà dei punti, e se dopo un anno sei ancora al punto di partenza te ne torni di filato nella tua perfida Albione. Scherzi a parte, come ho detto e scritto tante volte, una seria politica d'integrazione non può prescindere dall'apprendimento della lingua del paese ospitante. La conoscenza condivisa dell'idioma di una nazione è il solo strumento in grado di attivare e tenere vivo il senso di appartenenza a una comunità di cittadini.

Massimo Arcangeli

Commenti