Il brutto gioco di parole e pallottole

L'odio politico e morale, anche grazie al dominio dei social, si è ormai diffuso in tutto il mondo. La violenza delle parole sembra essere diventata l'unico modo di affermare la propria esistenza

Il brutto gioco di parole e pallottole
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Esiste un legame tra parole e pallottole? Dopo l'assassinio di Charlie Kirk la domanda è tornata ad assumere una pesante drammaticità. C'è una relazione tra il linguaggio del discorso pubblico e il funesto ricorso all'omicidio politico? Ebbene, se c'è un Paese al mondo che può esibire le prove di tale perverso legame è proprio l'Italia. Nei giorni scorsi si è polemizzato con chi ha richiamato alla memoria le Br e i terribili anni Settanta del nostro Novecento. Ma perché mai? Se è vero che la storia è sempre maestra di vita, tenerla a mente ancora oggi può servire ad evitare altre tragedie. Sappiamo tutti, infatti, che la violenza di quegli anni non nacque dal nulla: che le pallottole furono la delirante conseguenza di parole che presero piede in una parte del mondo politico, sindacale, giovanile.

Vogliamo ricordarne i leitmotiv? La lettura del secondo dopoguerra come una storia di "tradimento della Resistenza". La denuncia del potere Dc come centro del nuovo fascismo, della mafia, delle stragi di Stato. Il disprezzo per l'imborghesimento della sinistra storica che "svendeva" i bisogni della classe operaia. Perciò è vero: prima delle pallottole contro Calabresi vennero le parole contro la "strage di Stato" di Piazza Fontana. Prima di quelle contro Moro vennero le campagne contro il "fanfascismo" e contro Andreotti, padrino dei padrini. Analogamente prima di uccidere un "fascista" si era gridato nelle piazze che "non era reato". E prima di assassinare un poliziotto si era precisato che il posto giusto per quel suo "basco nero" fosse il cimitero. Perché allora dividersi? Perché non ricordare, tutti insieme, con memoria finalmente condivisa, questa nostra triste storia visto anche che l'odio politico di allora era rivolto pure contro la sinistra, in particolare contro il Berlinguer del "compromesso storico" e della svolta sulla Nato? Del resto, la macabra eredità di quel clima si è protratta fino al 2002 quando (ci scusi Odifreddi per il paragone) fu ucciso Marco Biagi reo, proprio come Kirk, di proporre teorie "inaccettabili". Intendiamoci: non c'è mai un legame meccanico tra chi espone un pensiero e chi spara. Sarebbe questa una visione assai rozza delle dinamiche politiche e umane. Ma non c'è dubbio che quando un qualsiasi pensiero o slogan, per quanto delirante, riesce a propagarsi nel discorso pubblico, in quello stesso momento esso diventa una facile copertura simbolica per ogni genere di gesto. In specie quando il legittimo dissenso politico si coniuga con un assai meno lecito disprezzo morale. Quando si elegge come "causa delle cause" l'abbattimento del "Nemico", trasformando tutti i suoi rappresentanti in simboli da sfregiare.

Attenzione: non si tratta di "fantasmi del passato". L'odio politico e morale, anche grazie al dominio dei social, si è ormai diffuso in tutto il mondo. La violenza delle parole sembra essere diventata l'unico modo di affermare la propria esistenza, in un pianeta già segnato, peraltro, da guerre sanguinose. Ecco perché, in luogo di polemizzare sul rapporto tra parole e pallottole, sarebbe il caso di mettere in atto una vera e propria rivoluzione culturale, "bipartisan", del linguaggio pubblico. Politici di destra e di sinistra, media, gente comune, dovrebbero bandire per sempre il ricorso alla demonizzazione dell'avversario. In nome di una politica mite, fatta di valori comuni condivisi. La sinistra, viceversa, ribatte alla Meloni: perché indichi anche noi come responsabili di questo clima? Forse perché, per contestare la liberazione di Almasri, era del tutto immotivato usare parole come "complici di un torturatore"? Oppure perché, su Gaza, non c'era alcuna necessità di far ricorso alle parole "complici di un genocidio" (falsificando per giunta la posizione di Palazzo Chigi contro Netanyhau)?

Si dirà: parole, non sono altro che parole. Non è così. L'odio si genera proprio attraverso le parole. Perciò, come ha ricordato Leone XIV, l'"ecologia della parola", nel nostro tempo storico, è importante, per salvare la civiltà, almeno quanto "l'ecologia della Terra".

"Stereotipi e luoghi comuni"; "cedimento alla mediocrità"; diffusione di "linguaggi senza amore, ideologici e faziosi, colmi di pregiudizi, rancore, fanatismo, odio". Questo è oggi il discorso pubblico secondo il Papa. Gli si può dar torto? Perciò egli ha proposto a tutti di "disarmare le parole". Appunto: prima che parlino le armi.

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