Altri cinquemila arresti nelle città di tutta la Russia. E sempre più giovani e persone che mai in passato avevano osato sfidare la brutalità della polizia e il gelo feroce dell'inverno russo (ieri a Yakutsk durante la manifestazione il termometro segnava un siberiano -42°) sono scesi nelle strade rispondendo all'appello lanciato dal carcere da Aleksei Navalny. Che cosa spinge tanti studenti e parte dei ceti più istruiti della Russia a sfidare i divieti del governo e ad assumersi il rischio di subire violenza fisica, carcere e persecuzioni? La risposta, giorno dopo giorno e manifestazione dopo manifestazione, è sempre più chiara: non si tratta tanto almeno per parte di loro di convinta adesione al progetto politico di Navalny, quanto della crescente consapevolezza di aver trovato in quest'uomo coraggioso e abilissimo nella comunicazione un catalizzatore della loro insofferenza verso un regime ormai ventennale. Un regime che basa la sua stabilità - oltre che su un monopolio della forza inesorabile - su un patto di scambio tipico delle autocrazie: limitazione delle libertà civili in cambio di benessere e sicurezza. Questo patto sta venendo meno non solo per la fisiologica usura del tempo (Putin siede al Cremlino ormai dal 2000 e ha quasi settant'anni), ma appunto perché subire una dittatura di fatto in cambio di un presente economicamente scadente e di un futuro di stagnazione appare sempre meno sensato.
Siamo dunque di fronte a una rivolta da una parte generazionale, dall'altra socialmente trasversale. Giovani e ceti colti che rifiutano le parole d'ordine stantie del potere - un mix spregiudicato di nazionalismo militarista di destra e di nostalgie sovietiche che ha portato alla riabilitazione perfino di Stalin nei programmi scolastici -, che sentono di non aver nulla da perdere e che, come ripete uno slogan lanciato da Navalny, «non hanno più paura». C'è poi un altro elemento, che fa sempre molta presa in Russia e che l'uomo politico sopravvissuto al novichok è stato abilissimo a propagandare con i suoi video visionati da decine di milioni di concittadini su YouTube: la denuncia dettagliata della corruzione e della conseguente immensa ricchezza personale non solo di Putin, ma dell'intera cerchia di potere che a lui deve tutto, dall'ex presidente Medvedev all'attuale premier Mishustyn e giù giù fino agli amici titolari delle grandi imprese immensamente redditizie che lavorano con lo Stato russo, un sistema che Navalny bolla come «Stato-mafia».
Pur rinchiuso in una cella, Navalny sta riuscendo a ottenere due risultati inediti nella Russia putiniana: si erge a unico vero oppositore dell'autocrazia al potere e costringe Putin, che aveva sempre rifiutato anche solo di pronunciare il suo nome, a rispondere alle sue denunce. Il presidente russo, consapevole che il clima sta cambiando e che la sola reazione poliziesca è insufficiente, per ora consente al suo rivale di comunicare con l'esterno dal carcere e ha dovuto negare che la famosa residenza sul Mar Nero documentata da Navalny sia sua. La sua strategia somiglia a quella di Lukashenko in Bielorussia: decapitare l'opposizione e vincerla per stanchezza sui tempi lunghi. Ma qualcosa di importante sta cambiando anche a livello internazionale. Alla Casa Bianca siede adesso un Joe Biden che non è disposto a chiudere entrambi gli occhi su quanto accade in Russia come faceva Trump, e che alza la voce con Putin sul rispetto delle libertà democratiche («Condanniamo i metodi brutali»). Tanto basta a far gridare il Cremlino alle «grossolane interferenze nei nostri affari interni». Il che, detto dai maestri mondiali dell'hackering, fa sorridere.
Meno disposta a «interferire» sembra invece l'Europa, più condizionata da legami economici e presunte dipendenze energetiche. Ma dopo il caso Lukashenko, qualcosa potrebbe cambiare anche nei rapporti con un Putin indebolito, e ieri Josep Borrell ha chiesto a Mosca a nome dell'Ue di rispettare i suoi impegni internazionali.
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