Nel pomeriggio la Storia del giornalismo, peraltro ancora in piena attività, passava a trovare i novellini, gente che poteva vantare al massimo una decina di anni in redazione, niente in confronto a lui. Mario Cervi entrava nell'ufficio dei colleghi del Giornale, si accomodava e iniziava una rassegna stampa diabolica, tanto più era garbato quanto più era tagliente. Era così anche quando scriveva articoli polemici, insuperabile nel suo genere: dire tutto il bene possibile (poco, anzi nulla) dell'oggetto trattato, che fosse un politico, un intellettuale, un libro. Con prosa semplice ed elegante affossava ogni velleità altrui senza offendere. Anzi, spesso veniva ringraziato per articoli che, di fatto, erano stroncature pazzesche, da andarsi a sotterrare. La forza della gentilezza. Sapeva anche usare la clava, ma negli ultimi anni, a cui si riferisce il pezzo che state leggendo, incrociava solo il fioretto. Chiedeva anche garbatamente cosa ci fosse in pagina quel giorno. I colleghi lo informavano e attendevano con impazienza il verdetto. Anche lì, se era tutto a posto, lo diceva e stop. Ma se partiva con: «Bello, però...» erano guai. Per fortuna non lesinava consigli, sempre migliorativi.
Era un narratore meraviglioso anche a parole, la redazione cultura voleva sapere tutto di Guido Piovene ed Enzo Bettiza, i maestri mai incontrati, i miti di gioventù di chi si trovava a ricalcarne le orme, potendo solo sperare di non sfigurare, senza inventarsi nulla. Quei grandi scrittori e giornalisti avevano animato il nostro Giornale, portandolo direttamente nell'Empireo della cultura europea. Bettiza, un gigante, aveva girato mezza Europa per reclutare le firme migliori, senza badare a spese, questo si sa per certo, perché a controllare i conti pensava proprio Cervi. Ufficio di Mario. Entra Bettiza. «Enzo, scusa, puoi giustificare meglio le spese?». «Ma certo». Bettiza esce e torna un minuto dopo, ha con sé un foglio. Cervi lo prende e legge: «Spese varie: un milione». Risate a denti stretti. Su Montanelli ricordava un formidabile aneddoto, la cassazione sulle marchette (i favori agli amici) nella pagina delle recensioni librarie. Indro: «Questo libro è talmente brutto che se ne può anche parlare bene». Definitivo, nel suo coltissimo cinismo.
Quando si chiedeva un pezzo a Cervi, dopo mezz'ora arrivavano due-tre cartelle perfette. Anzi, c'era da interrogarsi se per caso fosse un cyborg. Non ci vedeva bene e usava il computer come mera macchina per scrivere. Eppure era sempre preciso alla battuta. Nessuno sa come facesse. Volevi 3753 battute? Al massimo te ne arrivavano 3755 o 3751. Come tutti i grandi, non giudicava l'importanza dell'articolo dalla sua lunghezza. Sapeva che per un affondo vincente spesso sono meglio 2400 battute e chi ne scrive sempre 6mila è un principiante o un dilettante o un incapace. «Andare lunghi è più facile». Massima aurea.
Aveva l'umiltà di uno stagista, vi immaginate la Storia del giornalismo che telefona in redazione a dei signor nessuno per sapere se il suo pezzo va bene? L'unica volta che l'abbiamo visto alterato è quando per errore sono saltate, ehm, le prime 20 righe di un pezzo sulla guerra di Grecia, tema che gli era particolarmente caro. Per fortuna, a occhio inesperto, l'articolo reggeva lo stesso.
In Grecia, Cervi aveva combattuto, era fuggito dopo la disfatta italiana, si era salvato grazie agli abitanti. Partì sottotenente nella 2ª compagnia del 479º battaglione costiero, di presidio ad un piccolo paese greco, Boiati, venti chilometri a nord di Atene. Dopo l'8 settembre del 1943, venne fatto prigioniero dai tedeschi ed internato. Ma scappò. In Grecia lasciò il cuore, in tutti i sensi. Lì tornava ogni estate, era il suo buon ritiro. Sulle bancarelle, se cercate bene, prima o poi vi imbatterete nella sua Storia della guerra in Grecia. La prima edizione è del 1965. È un testo corposo ma si legge con un piacere sconosciuto a chi frequenta la saggistica. Sì, fu coautore di Montanelli nella fortunatissima Storia d'Italia della Rizzoli, uno dei bestseller assoluti nel dopoguerra. Ma non è proprio il caso di confinarlo a questo ruolo, gli va strettissimo. Per un quadro della sua avventura nel giornalismo, specie negli anni oscuri della Repubblica, bisogna leggere il libro a quattro mani con Luigi Mascheroni, Gli anni del piombo. E proprio Mascheroni è il curatore dell'iniziativa editoriale del Giornale in occasione dei cento anni dalla nascita. Sarà in edicola il 1° aprile il volume di Mario Cervi Il giornalismo, la mia vita. Reportage, interviste e ritratti di una grande firma del «Giornale» (19742015).
Infine mi sia perdonata una battuta in prima persona. Io Cervi lo adoravo anche per motivi bassamente campanilistici. Avevamo una gag fissa. Io gli dicevo: «Direttore - lo chiamavano tutti sempre così, anche i direttori in carica del Giornale - tu sei sotto ogni punto di vista perfetto. Però c'è un però: sei nato in provincia di Cremona ma non in città. Sei più milanese che altro».
La prima volta mi guardò inizialmente con compassione (lo capivo, aveva ragione). Poi scoppiò a ridere di gusto e mi rispose: «Guarda che è stato solo un caso. Sono cremonese come te». È una sciocchezza, lo so, ma è la sciocchezza che condividevo con un uomo che ho amato e ammirato.
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