I trenta big dell'industria Usa, detti anche «gorilla», detengono tutti insieme 1.200 miliardi di dollari investiti in passività pubbliche e private. In altri termini sono possessori di una montagna di debiti altrui. E sono quindi in grado di influenzare, più o meno direttamente, il comportamento dei loro debitori. Per avere un'idea più precisa, l'ordine di grandezza è quello del 50% del nostro debito pubblico, o non molto meno del Pil della Spagna, piuttosto che il doppio del Pil della Svizzera.
Il conto lo ha fatto il Financial Times, facendo anche qualche nome: tra i gorilla ci sono naturalmente Apple (che da sola ha riserve liquidabili per 150 miliardi) Amazon, Microsoft; ma anche nostre conoscenze più vecchie quali Ford o General Electric.
Il fenomeno merita attenzione perché queste non sono banche e nemmeno gestori o fondi pensione, che comprano debito per mestiere, per dare un rendimento ai propri clienti o sottoscrittori. Bensì società private che operano sul mercato di beni e servizi; la cui salute, in ultima analisi, dipende dalla capacità di vendere i loro prodotti ai consumatori finali.
In questi ultimi anni hanno accumulato tali enormi risorse in due modi: sia tramite i profitti macinati, sia attraverso l'emissione di analogo debito, favorita dai bassi tassi d'interesse e reinvestita con ritorni maggiori, che in parte hanno ricomprato loro stesse. Secondo il Financial Times i 1.200 miliardi di dollari sono così ripartiti: cash per 300 miliardi, obbligazioni societarie per 420, debito pubblico Usa per 370, e il resto in cartolarizzazioni. Molte di queste società si sono ormai dotate di vere e proprie sale operative di stampo bancario per gestire la liquidità: un secondo lavoro. In ogni caso il risultato finale è che queste 30 multinazionali americane si trovano ad avere nei loro bilanci un potere enorme, forse mai avuto prima nella storia del capitalismo. Il debito, infatti, è potere: prima di tutto il potere di influenzare le scelte del debitore. E che a poterlo fare siano giganti del consumer non è proprio tranquillizzante, perché si crea un rapporto tra Stato e mercato che può facilmente diventare incestuoso. Facciamo qualche esempio.
Se una di queste aziende dovesse andare in crisi, come si comporterebbe il governo Usa? Come per qualunque altra impresa, oppure con un occhio di riguardo, nel timore di veder crollare le quotazioni del proprio debito? Allo stesso modo, se il governo decidesse di introdurre riforme fiscali o industriali non gradite ai gorilla, come potrebbero reagire questi? Avrebbero forse il modo di incidere sulle scelte di politica economica della Casa Bianca? Inoltre, avendo investito largamente anche in bond societari, dalla salute dei 30 big può dipendere la stabilità dell'intero sistema economico: e se i tassi d'interesse cominciassero a salire? Potrebbero influenzare anche la politica monetaria? E se qualcuno pensa che il tema sia solo americano, si sbaglia di grosso, perché la globalizzazione dei mercati delle multinazionali rende inesistente ogni barriera territoriale. In altre parole, il problema di cui sopra è anche un nostro problema.
Certo, di qui a dire che siamo alla soglia di una nuova schiavitù, quella delle multinazionali, ce ne passa.
Ma forse è il caso di cominciare a pensare (come sta correttamente facendo l'Unione europea con la web tax) che le dinamiche dell'economia globalizzata e le dimensioni dei gorilla comportano effetti principali e collaterali che è bene tenere in sempre maggiore considerazione. E, magari, cominciare a capire che Donald Trump non è l'unico problema che abbiamo negli Usa noi europei.
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