Colpa di noi prof se i ragazzi non sanno più l'italiano

Colpa di noi prof se i ragazzi non sanno più l'italiano

È davvero singolare che oltre 600 docenti universitari, alcuni anche prestigiosi, abbiano firmato un appello dai toni così semplicistici o, per usare un termine di gran moda, «populistici», per chiedere al governo e al parlamento «interventi urgenti» contro il «semianalfabetismo» dei loro studenti, accusati di scrivere malissimo in italiano e di commettere gravi errori di sintassi, grammatica e lessico.

Il problema, in realtà, è più complesso di quanto vorrebbero fare apparire questi colleghi, e investe, oltre alla scuola, anche e soprattutto l'università italiana, che fino a prova contraria laurea i professori delle scuole che formano i ragazzi somari oggi denunciati, i quali esistono per davvero, aumentano ogni anno di più, e di cui è giusto dibattere. Tuttavia, non ci sarebbe nulla di scandaloso se dei genitori italiani firmassero anch'essi un appello per prendersela con l'università che regala lauree ai docenti dei propri figli. Sarebbe, certo, un circolo vizioso, un cane che si morde la coda, ma una cosa è certa: gran parte delle responsabilità di questo fenomeno è ascrivibile proprio alla crisi dell'intero sistema formativo, che è il prodotto non solo di scelte politiche, teorie pedagogiche e psicologiche e convinzioni ideologiche di origine sessantottina tendenti a un generale livellamento delle competenze, sempre più tecnicistiche e sempre meno umanistiche, a dispetto della valorizzazione del talento e del merito, ma anche dell'indisturbata «selezione» di un corpo accademico che lancia solo oggi l'allarme, piangendo lacrime di coccodrillo.

È vero che nella scuola dell'obbligo il buonismo con cui gli insegnanti tendono a promuovere tutti, anche gli analfabeti, è dilagante, ma è altrettanto vero che i nostri ragazzi fanno oggi i conti con un disprezzo generalizzato della lingua italiana diffuso sia nei romanzi di certi autori contemporanei, pieni zeppi di parolacce, sia nei giornali e nella televisione, che fanno largo uso di un linguaggio sempre più sciatto, pieno di scorciatoie e strafalcioni. E che dire del predominio incontrastato dell'inglese oggi peraltro imposto a cominciare proprio dall'università, a tutto svantaggio dell'uso dell'italiano?

Gran parte della classe accademica che oggi si lamenta dell'ingresso all'università di gente che non usa bene il congiuntivo, fino all'altro ieri si è abbeverata agli insegnamenti di professori come Tullio De Mauro, che dopo averci per una vita invitato a privilegiare e conservare i nostri dialetti, solo poco prima di morire si è messo a denunciare l'ignoranza della lingua italiana tra i giovani. Ma la nostra è anche una università figlia di intellettuali devoti alla «oicofobia» (letteralmente vuol dire «paura della propria casa»), fenomeno che colpisce soprattutto la classe intellettuale italiana ed europea e che porta al disprezzo della propria cultura e di tutto ciò che ha a che fare con il retaggio identitario della nazione, a iniziare dalla lingua. Sin dal 1965, l'anno del suo Scrittori e popolo, Alberto Asor Rosa non ha mai smesso di prendersela con gli intellettuali nazional-popolari, bollandoli di provincialismo e conservatorismo e accusati di essere l'incarnazione di una cultura paesana e piccolo borghese. Si ricorderà il suo feroce attacco a Francesco De Sanctis, reo, a suo dire, di avere scritto una storia della letteratura che celebrava la civiltà italiana moderna, e ai «ridicoli soprassalti nazionalistici» in cui la cultura letteraria italiana è stata coinvolta. Ancora nel 2009 Asor Rosa pensava di convertire una «normale» storia della letteratura italiana in una storia «europea» della letteratura italiana, come recita il titolo della sua ultima opera.

Tutto ciò ha sin qui fatto parte dell'«impegno» del buon accademico e della sua missione «salvifica» del mondo, con risultati assai deludenti e che sono sotto gli occhi di tutti.

*Ricercatore e docente di storia delle dottrine politiche, università della Calabria

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