
Poiché amiamo il cinema, persino quello italiano, è da giorni che seguiamo lo scandalo dei finanziamenti pubblici, già titolato «Filmopoli». Tax credit, fondi richiesti sotto un certo governo, soldi erogati sotto un altro, domande fantasma, contributi a pioggia. La situazione, direbbe un mediocre sceneggiatore, «è più complicata di quello che sembra».
Ciò che abbiamo capito è che il sistema - nato molti governi fa, perfezionato dal ministro Franceschini e poi corretto dai ministri Sangiuliano e Giuli - faceva acqua da tutte le parti. Il credito d'imposta, a quelle condizioni, era insostenibile. Qualcosa a metà fra una sorta di reddito di cittadinanza per i cinematografari e uno speciale bonus facciate per le case di produzione.
Ognuno pensa sempre che il proprio avversario politico sia più disonesto di lui. E per quanto personalmente siamo soliti diffidare della destra, ci sembra che questa volta nella gara a favorire amici, parenti e colleghi abbia vinto a mani basse e tasche piene la sinistra colta, festivaliera e democratica.
Quella che si autoassegna il David di Donatello per la Cultura, che drena soldi pubblici a fini privati, che trasforma i cast in un amichettificio, si autocelebra, si autopremia, si porta a casa i soldi e poi si lamenta col primo ministro di destra che incrocia nel foyer.Le battute, noi che non siamo capaci di farle, le lasciamo a Geppi Cucciari. Sappiamo solo che la destra ha sempre sbagliato. Ha invece ragione la sinistra: «Con la cultura si mangia», diceva. E anche parecchio.