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Dalla crisi alle siringhe, dilettanti allo sbaraglio

Magari si tratta solo di errori di distrazione, di un sovrappiù di superficialità ma sui bandi del commissario straordinario Arcuri le siringhe si chiamano "sirighe"

Dalla crisi alle siringhe, dilettanti allo sbaraglio

Magari si tratta solo di errori di distrazione, di un sovrappiù di superficialità ma sui bandi del commissario straordinario Arcuri le siringhe si chiamano «sirighe» (termine inventato e erroneamente ripetuto più volte), magari in onore a quelle venute da Hong Kong (da noi la Cina è sempre più vicina), costate più delle altre ma che i medici italiani si rifiutano di usare perché talmente grandi da essere imprecise: ogni siringa, usiamo il vocabolo esatto, può contenere otto dosi non per nulla nel bando in questione il numero degli aghi è otto volte superiore; solo che c'è da mettersi nei panni del povero dottore o infermiere che in una mano ha questo siringone e nell'altra ha un flacone della Pfizer che contiene cinque dosi di vaccino e deve misurare, magari ad occhio, la quantità che deve iniettare ad ogni singolo paziente. Se va bene lui ne esce pazzo, mentre bisogna fare gli scongiuri per il vaccinato, visto che in certi medicinali vedi l'insulina o l'eparina la quantità della sostanza è essenziale. Figuriamoci per un vaccino. Su un altro bando, quello del 24 novembre su carta intestata Presidenza del Consiglio dei Ministri per l'acquisto di 5 milioni e 440mila fiale di sodio di cloruro 0,9% per la diluizione del vaccino Covid-19, c'è scritto che l'offerta si intenderà vincolante fino al 30 giugno del 2020, un errore macroscopico (probabilmente la data esatta era quella del giugno 2021) visto che non si può certo mettere un termine di validità dell'offerta addirittura antecedente di 5 mesi al bando di gara.

Si dice che la forma a volte è sostanza. Lo è sicuramente in questi frangenti perché dà l'idea di quanta poca cura ci sia nell'affrontare la più grande emergenza e tragedia che questo Paese si è trovato ad affrontare dall'ultima guerra. Il numero dei morti sta lì dimostrarlo. E l'errore lessicale su un documento ufficiale o di una data in un bando sono testimoni di quest'assenza di accuratezza. Fanno il paio con il caos delle mascherine di marzo, che hanno arricchito gli intermediari con Pechino. O, ancora, con il ritardo del bando (appena ad ottobre) per aumentare il numero delle terapie intensive di fronte alla seconda ondata.

Ora le fanfare del governo suonano la musica del quanto siamo bravi sulla campagna di vaccinazione: sbandierano i numeri che ci danno dietro solo alla Germania in Europa, rimarcano che abbiamo umiliato la Francia che è molto più dietro. Sembra di ascoltare lo stesso spartito tronfio di otto mesi fa sul «modello Italia», che poi ha steccato sul numero delle vittime. Allora, diciamo subito che il traguardo tanto sbandierato dei 70mila vaccini al giorno se non sarà aumentato, e di molto, per portarci fuori dai guai impiegherà anni, anche perché il vaccino per essere efficace, come tutti sanno, ha bisogno di un richiamo dopo qualche settimana: insomma, per essere al sicuro ci vogliono due iniezioni non una. Inoltre vista la condizione di paralisi della nostra economia e del nostro debito pubblico (mai come in questi mesi l'investimento sanitario è connesso a quello economico), è di poca consolazione misurarci con gli altri. Per come sta messo il Paese, noi dovremmo essere i primi, al costo di prendere non uno ma due Mes sanitari. E comunque bisogna stare attenti nei paragoni come nel caso della Francia, che paga un pregiudizio verso i vaccini più consolidato che da noi. Insomma, siamo davanti ai cugini transalpini non per il governo ma, al solito, per il grande senso di responsabilità degli italiani. Ma, soprattutto, come nelle gare di Formula uno siamo partiti bene grazie ai nostri medici, ma rischiamo di doverci fermare tra qualche giro ai «box» perché abbiamo sbagliato pneumatici, pardon «siringoni», e dovremo procurarci di corsa quelli giusti sul mercato. Oppure perché non siamo stati avveduti nel diversificare la scelta delle marche dei vaccini, concentrandoci su quello di un'azienda farmaceutica (Astra-Zeneca) che rischia di scontare un notevole ritardo.

Un ragionamento che ha un corollario più squisitamente politico: si può fare anche il più bel documento programmatico sul Recovery fund, sulla vaccinazione, sulle scuole. Ma poi anche i migliori accordi, camminano sulle gambe degli uomini. Chi deve attuare, garantire, operare affinché quelle intese diventino fatti, sono i personaggi che saranno chiamati a gestirle. Ecco perché non è una discussione di lana caprina o solo di potere, porsi il problema se al Paese serva un governo presieduto da Conte, una Azzolina alla Pubblica Istruzione, o una De Micheli ai Trasporti. Oppure un Arcuri commissario straordinario.

Anche perché quest'anno vissuto pericolosamente ha dimostrato l'esatto contrario.

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