Politica

Deriva autoritaria

La tentazione del Movimento 5 Stelle

Deriva autoritaria

E pensare che neanche due anni fa erano loro quelli che accusavano la riforma costituzionale Renzi-Boschi di «deriva autoritaria», difendendo a spada tratta «la Costituzione più bella del mondo». Quasi 23 mesi dopo, i ruoli si sono completamente ribaltati. E il Movimento ne ha infilata una dopo l'altra. Dalla surreale richiesta di impeachment per Sergio Mattarella dello scorso maggio, fino alla pretesa di «togliere i poteri al capo dello Stato» lanciata domenica scorsa al Circo Massimo da Beppe Grillo. In mezzo, l'auspicio di chiudere i giornali che «alterano la realtà» e «riportano solo fake news», formalizzata dal vicepremier Luigi Di Maio, ma già prima buttata lì (a mo' di intimidazione?) dal portavoce di Palazzo Chigi Rocco Casalino e pure dal sottosegretario con delega all'Editoria Vito Crimi. Si dirà che è una difesa di categoria, ma unendo i puntini di tutti questi passaggi a cui va aggiunta l'allergia dei big del M5s a presentarsi nei talk show tv se c'è un qualsivoglia contraddittorio con altri politici c'è un solo comune denominatore: l'allergia del Movimento a confrontarsi con il dissenso.

Le danze il M5s le ha aperte a fine maggio. Durante le consultazioni per la formazione del governo, Di Maio e Alessandro Di Battista si esibirono in una surreale richiesta di impeachment per Mattarella. Allora il capo dello Stato finì nel mirino del M5s per il solo fatto di essersi permesso di avanzare dubbi sulla nomina di Paolo Savona a ministro dell'Economia, prerogativa che la Costituzione attribuisce esplicitamente al Quirinale e che è stata ripetutamente esercitata da tutti gli inquilini del Colle, nessuno escluso. Eppure i vertici del Movimento e la Casaleggio Associati considerarono quella di Mattarella una sorta di lesa maestà, arrivando a chiederne la messa in stato di accusa con un'aggressività verbale senza precedenti (restano agli atti, a futura memoria, le immagini del comizio di Fiumicino nella tarda sera del 27 maggio, con Di Maio e Di Battista che definire senza freni è un eufemismo). Si arriva così a domenica scorsa, palco del Circo Massimo a Roma, dove si celebra la prima kermesse governativa dell'Italia a Cinque stelle. Prende la parola Grillo e torna a puntare il mirino sul Quirinale. Non contro Mattarella, ma contro l'istituzione in sé, «una figura che ha troppi poteri e che va riformata». D'altra parte, raccontano nei Palazzi, è stata proprio la moral suasion del Colle a costringere Palazzo Chigi ad ammorbidire i toni con l'Ue. Il pubblico davvero poco rispetto alle attese nella Roma di Virginia Raggi è in visibilio, gongola e applaude. Sono gli stessi che accusavano Silvio Berlusconi di essere «un dittatore» e Matteo Renzi di «deriva autoritaria», ma tant'è.

Cinque mesi dopo il fantomatico impeachment, c'è un solo filo conduttore. Perché il leitmotiv delle battaglie del Movimento è la guerra al dissenso. È questo che non piace a Di Maio & Co, quello che davvero avversano. La critica, l'obiezione, il dubbio. Pure se arriva dalla prima carica dello Stato che piaccia o no rappresenta la Repubblica non per grazia ricevuta ma perché lo ha deciso un Parlamento liberamente eletto. Ma Mattarella e non è l'unico - dubbi su come si sta muovendo il governo sulle materie economiche ne ha. E sempre con grande discrezione e senza mai prendersi un titolo di giornale li sta manifestando. Tanto è bastato per dare il là all'assalto.

Che è, evidentemente, la cartina di tornasole di un'innata insofferenza verso il dissenso. La stessa che porta Di Maio, pur nella veste istituzionale di vicepremier, ad augurarsi la chiusura dei giornali, rei solo alcuni, perché altri si sono uniformati a non seguire lo storytelling che ci propina l'efficientissima macchina della comunicazione M5s (e pure della Lega). Lo ha fatto lui, lo ha ribadito Crimi, quasi a minacciare quotidiani e agenzie di stampa: o vi adeguate o saranno solo tagli.

D'altra parte sono proprio i big del Movimento che ormai da anni rifiutano qualunque comparsata nei talk show tv di prima serata a meno che non gli sia garantita l'assenza di contraddittorio. Non devono esserci politici di altri schieramenti, né giornalisti sgraditi: solo a queste condizioni i vari Di Maio, Di Battista & Co si presentano nel prime time della Rai, di Mediaset e di La7. Una pessima abitudine, sulla quale disse bene il presidente della Camera Roberto Fico lo scorso luglio i giornalisti hanno più di qualche responsabilità.

Insomma, forse non è un caso che il governo Conte sia stato il primo della storia era il 3 ottobre scorso a convocare una conferenza stampa senza che fosse permesso fare alcuna domanda.

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