La droga prima di guidare? È la società "zero regole"

La droga prima di guidare? È la società "zero regole"

Q uando un evento nel gergo giornalistico detto di «cronaca» colpisce più di altri, vuol dire che ha toccato profondamente le corde sensibili, della società che l'ha generato: è diventato un «fatto sociale totale» come lo chiamava l'antropologo francese Marcel Mauss. L'incidente d'auto che, a Roma, ha strappato dal mondo le poco più che bambine Gaia e Camilla, ha talmente inquietato ed emozionato che certo possiamo definirlo uno di questi fatti. Un incidente in cui, stando a quel che sappiamo, pure le vittime sembrerebbero recare una parte di responsabilità. Anche se non ci è piaciuto il trattamento di alcuni organi di informazione, quasi a mettere sullo stesso piano l'omicida e le vittime: è vero che le due ragazzine probabilmente hanno attraversato imprudentemente, ma a una velocità moderata, su una strada urbana come quella, forse l'esito non sarebbe stato così devastante; e dalle indagini il Suv sfrecciava e il guidatore risultava sotto effetto di droghe e di alcol, e pare fosse recidivo. Non essendo comunque facile dividere qui il bene dal male, la mancanza di un «cattivo» rende la percezione ancora più perturbante.

Cosa ci dice l'incidente di Corso Francia come fatto sociale totale? Ci parla di una società slabbrata, con pochi o nessun punto di riferimento, senza soprattutto alcuno abbastanza autorevole da farli rispettare. Probabilmente Gaia e Camilla non hanno consumato nulla (l'investitore omicida sì) ma basta passare per ponte Milvio, zona della movida capitolina limitrofa a quella dell'incidente, anche a ore molto avanzate della notte, per vedere giovani come Pietro, l'investitore, o ragazzini e soprattutto ragazzine coetanee o persino più piccole di Gaia e Camilla, ciondolare in mezzo alle strade sotto gli effetti dell'alcol, che circola a fiumi, venduto senza problemi anche ai minorenni, o sotto l'effetto di droghe, il cui costo si è talmente ridotto da essere accessibile anche alle paghette di un liceale. Una società ormai pressoché priva di istituzioni... sociali, in cui la famiglia, che da sempre nella comunità è il luogo in cui si apprendono e si trasmettono le regole, giace agonizzante sotto i colpi della turbo-modernità, messa in pericolo dai piani legislativi dei governi progressisti, o dal disinteresse di quelli conservatori. E se la famiglia è fragile o inesistente anche l'autorità dei genitori può poco o nulla: padri o madri che faticano a farsi persino ascoltare, figurarsi a trasmettere un'idea o un'immagine di ordine. Scene da un interno di «famiglia», se vogliamo chiamarla ancora così, che spesso il padre dell'investitore, il regista Paolo Genovese, ha ben raccontato nei suoi film.

È una società in cui predomina, più che la libertà, la licenza, secondo una distinzione classica ma ora sconosciuta ai più, e in cui troneggia l'individuo narcisista e desiderante, quello per cui ogni conato di voglia è un «diritto», e come tale deve esser esaudito, subito. Una società individualistica che, in quanto atomizzata, è anche insicura o che si sente tale, il che poi è lo stesso.

Negli anni Sessanta cominciò questo attacco alla società «repressiva», che era poi quella delle regole, delle tradizioni e delle consuetudini sociali, in nome di una «libertà libertaria» come la chiamava, criticandola, il filosofo francese Raymond Aron. È la vittoria del Sessantotto: ma solo ora ne capiamo le conseguenze. Chissà se saremo ancora in tempo, non a tornare indietro, ma a costruire un tessuto sociale, con nuove regole, nuovi ordini e nuove gerarchie.

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