Immagina. Una mattina ti svegli e il tempo sembra accartocciarsi, con tutte le paure che tornano a sfiorare il presente, parole impolverate, di altri secoli, di vecchia umanità, che si accendono sul web e sui canali satellitari e sull'inchiostro sbiadito dei giornali.
Corea, missili, guerra atomica, malaria, peste nera, stupri e marocchinate, neonazisti e Ku Klux Klan, siccità e pantegane nelle strade di Roma e ovunque, su tutto, l'ombra di chi uccide colpendo nel mucchio nel nome di un dio fanatico, di una fede orecchiata nei sobborghi dell'Occidente, carica di rancore e terrore e mistificata da qualche predicatore improvvisato, così che perfino questa jihad postmoderna finisce per assomigliare ad un corto circuito del passato. Come un sortilegio.
Questo duemiladiciassette sembra un frullatore di ossessioni, una macchina del tempo in testa coda, che ruota intorno a se stessa e ritaglia brandelli di storia. La malaria non è mai stata sconfitta, ma stava lì, lontana, marginale, abbastanza da non toccare i nostri egoismi, come un mal d'Africa, facile da liquidare e invece eccola qui, in Italia, con una zanzara che uccide una bambina di quattro anni. Mai stata all'estero, contagiata in ospedale, un caso malaugurato, isolato, ma che sa di paludi pontine e di cartografi sulle sponde del Niger, di un'Italia in lutto per Coppi, tornato da un safari con una febbre cattiva, che i medici tardano a capire. Da Parigi Géminiani, salvato dallo stesso male, cerca di avvertire chi sta curando l'amico Faustò: «Chinino, dategli il chinino». Ma è troppo tardi. Tutte parole che sembravano lontane. Come la peste. Quella di Boccaccio o del Seicento manzoniano. Quella dei bubboni sotto le ascelle. Quella nera e monatta che svuotava le città e segnava con una croce le case sventurate. Ma c'è ancora la peste? C'è. Se ne è tornato a parlare a giugno a Santa Fe, nel New Mexico, trovandola nel sangue di due donne e di un uomo, e poi ancora in Arizona nel territorio Navajo, con una pulce che portava in dote il batterio battezzato come Yersinia Pestis. Nessun morto, solo la consapevolezza che nulla viene sconfitto per sempre.
La realtà è che non bisogna aver paura della paura. Neppure quando ti insegue. Non serve, tocca conviverci, perfino quando tira in ballo l'apocalisse. Ogni tanto in questi giorni qualcuno si chiede: ma quel ragazzotto, quel kim come si chiama, quel Kim-Jong-un, fa sul serio? La risposta è da qualche parte nei biglietti cinesi della felicità. Ma, nel dubbio, meglio trattare. La guerra in Corea gli americani l'avevano archiviata con l'allegra combriccola dei medici di M*A*S*H, film di Robert Altman e poi telefilm anni '70 con un finale record da 106 milioni di spettatori. Nulla a che fare con l'incubo atomico, quella è roba da anni '80, quando passavi il tempo a immaginare come sarebbe stato il day after, il giorno dopo la desertificazione nucleare. Adesso dicono che i soliti pessimisti si sono messi a rispolverare i rifugi a prova di bomba. Non si sa mai.
L'unica cosa certa è che tutta quest'ansia, questo equilibrio instabile e precario, torna ad appiccicarsi sulla pelle come sudore e serve a ricordare che la quiete è solo una misera utopia dell'umanità.
La paura non passa, ma non è un buon motivo per farti fregare. Come sempre ha ragione il maestro Yoda, lo jedi di Guerre Stellari: «La paura è la via per il Lato Oscuro. La paura conduce all'ira, l'ira all'odio; l'odio conduce alla sofferenza. Ah... Io sento in te molta paura».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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