Il vecchio che sta lavorando a testa bassa la terra, con le mani grandi e dure, i pochi capelli arruffati, non sembra avere più grandi ambizioni politiche. È un uomo a cui non è stato perdonato nulla. Dicono che abbia più di ottant'anni, ma le forze non lo hanno ancora abbandonato. Un tempo è stato senatore e poi console, con troppi nemici, capo autorevole dei Patrizi, detestato dai Plebei, in questa faida che da sempre divide la giovane repubblica di Roma. Sono passati poco più di quarant'anni dalla cacciata di Tarquinio il superbo, l'ultimo re, ma la città non trova pace.
Il vecchio si chiama Lucio. Lucio della gens Quinctia. Tutti però lo conoscono come Cincinnato, per i capelli crespi e ricci della sua gioventù, quando ancora si batteva caparbio e senza modestia per i suoi valori, per non lasciare Roma nelle mani dei mal di pancia della plebe, sotto il ricatto delle piazze, senza la guida delle famiglie tradizionali. Le piazze, pensava allora, sono nemiche della libertà. Le piazze rivendicano nel nome del numero, rancoroso e indistinto, l'assurda pretesa dell'uno vale uno. La vecchiaia lo ha reso diverso. Si è lasciato alle spalle gli odii della politica. La saggezza gli ha fatto comprendere anche le ragioni dei Plebei. Non è certo lui che ora devono temere, altre famiglie come quella dei Claudii, che un giorno lontano daranno a Roma una stirpe di imperatori, sono ben più intransigenti in questa lotta fratricida. Non a caso i suoi nemici cominciano quasi a rimpiangerlo. Cosa hanno in fondo da temere da un vecchio contadino?
Non ha più potere né ricchezza. Quello che gli resta sono questi quattro iugeri oltre i confini dell'urbe, al di là del Tevere, nei Prata Quinctia, in quell'area che mille e mille anni dopo è ancora conosciuta con il nome di Gianicolo, le terre care a Giano, il dio dalla doppia fronte, il dio che più di qualsiasi altro segna il destino di Roma. Il resto delle sue proprietà non c'è più. Ha dovuto vendere tutto per risarcire la vittima di suo figlio. È la storia di un processo farsa, messo in piedi per sporcare la sua dignità politica, per calpestare la sua autorità, colpendo il suo sangue, con un'accusa sostenuta da testimonianze false e prezzolate. L'accusa verso Cesone, suo figlio, è di aver ucciso durante una rissa nella Suburra il fratello di Marco Volscio, tribuno della plebe e avversario politico di Cincinnato. Era uno scontro tra bande, tra fazioni, botte tra partigiani. Non ci sono prove che a sferrare il pugno mortale sia stato suo figlio. Questo però non importava a nessuno. Suo figlio è stato condannato, l'esilio gli ha risparmiato la vita. Cincinnato ha dovuto pagare tremila assi e fare debiti e svendere ogni cosa. È per questo che ora passa i giorni ad arare, a seminare, a raccogliere, a governare le bestie, galline, maiali, buoi, il mulo per trasportare le derrate dal suo orto in città, mercato per i suoi porri, per i suoi agli, le sue cipolle e tutto il resto.
È così che lo trova la delegazione dei senatori. Roma ha bisogno di lui. Il console Lucio Minucio Esquilino assediato dagli Equi. La situazione sta precipitando. Cincinnato è il miglior capo militare che ci sia in circolazione. Quello che gli offrono è la carica di dictator, per sei mesi sarà lui a guidare la repubblica, con i pieni poteri, per fronteggiare l'emergenza.
Il vecchio chiede alla moglie Racilia di andare a prendere la toga. Si lava e sciacqua via il sudore e la fatica. Non può presentarsi sporco davanti a Roma. Accetta l'incarico. Affronta gli Equi e li sconfigge in poche settimane. La battaglia finale è sul monte Algido.
Cosa farà ora il dittatore? Quella notte, la notte della vittoria, tutti vegliarono, preoccupati per il destino di Roma. Quello che accade diventerà storia e farà di Cincinnato l'esempio da rispettare nei secoli dei secoli. Tito Livio lo eleva a maestro di virtù, il simbolo dello spirito di servizio e della virilità del cittadino romano.
Lucio Quinzio detto Cincinnato se ne torna nei Prata Quinctia, rinuncia agli altri mesi da dictator, ripone la toga e riprende la vanga. Non sarà un uomo per tutte le stagioni.
Vittorio Macioce
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