Quando Eugenio Corti morì, il 4 febbraio 2014, Sébastien Lapaque, sul quotidiano parigino Le Figaro, lo definì «uno degli immensi scrittori del nostro tempo, uno dei più grandi, forse il più grande». A partire da oggi i lettori del Giornale avranno tra le mani il capolavoro assoluto di Corti: Il cavallo rosso, romanzo di 1280 pagine, opportunamente suddiviso in tre tomi, corrispondenti alle tre parti dell'originale: «Il cavallo rosso», «Il cavallo livido», «L'albero della vita». I titoli sono tratti dall'Apocalisse, e la storia della famiglia Riva si snoda dagli inizi della Seconda guerra mondiale al 1974, l'anno del referendum sul divorzio.
Sono stato, nel 1983, il primo editore del Cavallo rosso, che da allora non ha smesso di galoppare fino alla trentaduesima edizione, sulla quale è basata l'iniziativa del Giornale. Perché tanti lettori, tante traduzioni, persino in Giappone? La risposta è semplice: Il cavallo rosso è un vero romanzo, un romanzo vero. La letteratura italiana del Novecento, così ricca di grandi poeti, è invece povera di romanzieri. Rassegnati da anni (da decenni, ormai) a considerare romanzi certe brevi storie sull'adolescenza dell'autore, o piccoli episodi (evenemenziali) intorno ai quali costruire qualcosa che giustifichi le 160 o 192 pagine in corpo 12, insomma, a considerare romanzi certi racconti che restano panna anche se energicamente montata, finalmente leggiamo un vero romanzo, vero per le dimensioni esatte della storia che racconta, vero per il linguaggio vittoriosamente semplice dopo il corpo a corpo dello scrittore con le parole per farle aderire esattamente al pensiero.
Ma Il cavallo rosso è anche un romanzo vero perché affronta con umiltà, ma senza complessi, la verità: la verità della storia, la verità della vita. Corti non scrive mai «per sentito dire»: certo, c'è l'apporto della fantasia tipica del vero scrittore, intendendo per «fantasia» la capacità di penetrazione di uno sguardo che si spinge fino al nucleo veritativo delle cose. Nel 1942 Eugenio Corti, ventenne, volle andare soldato in Russia per vedere da vicino che cosa fosse il comunismo: «Avevo chiesto di essere destinato a quel fronte per farmi un'idea di prima mano dei risultati del gigantesco tentativo di costruire un mondo nuovo, completamente svincolato da Dio, anzi, contro Dio». La Campagna di Russia fu l'esperienza che segnò il sottotenente Corti per tutta la vita: la responsabilità di dover rispondere della vita degli uomini che gli erano stati affidati, la catastrofe della ritirata nei ghiacci fra sofferenze non indicibili perché Corti le ha dette, nelle sue pagine che trasudano verità. E poi le difficoltà del Dopoguerra, i turbini del post Concilio, fino agli anni Settanta con la contestazione giovanile e il terrorismo. Ma sempre con un anelito di speranza, la speranza dell'uomo che non può mai soffocare fino in fondo il desiderio di bene.
Il cavallo rosso è un romanzo assetato di verità che ha qualcosa di Solzenicyn (la denuncia degli arcipelaghi totalitaristici), lo sguardo corale di Guerra e pace, ma è venato anche dalla dolcezza dell'Albero degli zoccoli. E lo zoom di Corti è infallibile nel fissare i suoi personaggi. Un esempio. Mi è sempre stata cara questa descrizione di un compagno d'armi poi inghiottito nella Ritirata in dialogo con Ambrogio, uno dei protagonisti del libro e alter ego di Corti insieme al personaggio di Michele: «Il ventenne Moioli, bergamasco, puntatore del primo pezzo, era tra quelli che delle donne parlavano con fiducia. Che bella cosa l'amore! concludeva a volte le sue svagatezze, con molta ingenuità. Un giorno Ambrogio, ch'era in visita appunto nella tenda del primo pezzo, gli chiese: Ma di' un po': tu l'amore l'hai mai provato?. Moioli lì per lì rimase imbarazzato. Signornò rispose infine se devo essere sincero». Sono questi i giovani intatti che diventano uomini (mariti, padri) veri. E questa era l'aurea simplicitas di Corti il quale, come ogni grande scrittore, sapeva passare con disinvoltura da un dettaglio a prima vista insignificante a una riflessione sul destino dell'uomo. E così anche la sua Brianza, intrisa di religiosità, di imprenditorialità e di senso del dovere, poteva diventare uno specialissimo osservatorio per indagare le piaghe del '900.
Colonna portante della ricerca di Corti è la ricognizione sul male: per questo raccontò l'imbestiamento (parola che gli era cara) della Seconda guerra mondiale, le cancrene della Russia, gli orrori della guerra civile, le falsità di quella retorica comunista che volle monopolizzare la Resistenza. Per questo scrisse anche la tragedia Processo e morte di Stalin, immaginando il dittatore al colmo della solitudine e circondato da spettri. Per questo raccontò in L'isola del paradiso la tragedia degli ammutinati del Bounty che sognavano l'Eden rousseauiano del buon selvaggio e finirono per scannarsi a vicenda. Dal giorno della sua pubblicazione, Il cavallo rosso non ha perso nulla della sua freschezza, perché tocca i nervi autenticamente scoperti di ogni uomo: il senso del dolore e dell'amore, prima di tutto, raccontati con un impressionante ventaglio di sfaccettature, che toccano ora il dramma, ora il senso lirico, ora l'umorismo.
Corti apprese la lezione su verità e bellezza fra i banchi del liceo San Carlo di Milano, quando incontrò per la prima volta Omero, la stella fissa del suo personalissimo firmamento (subito dietro ci sono Dante e Manzoni): «In prima ginnasio, mi sono trovato tra le mani le sue due opere e ho incominciato a leggerle, ne sono rimasto totalmente conquistato. Percorrevo quel nuovo dominio con tale entusiasmo che, quando suonava la campana di interruzione dello studio, provavo un gran fastidio. È stata un'esperienza fortissima, che ha influito per sempre sul mio modo di scrivere. Di Omero mi ha appassionato la capacità di rendere bello tutto ciò di cui parla, il fatto che abbia saputo introdurre nel mondo tanta bellezza». La descrizione della bellezza femminile in Corti (memorabili nel romanzo i personaggi di Alma e Colomba...), la sua pietas nei confronti dei vinti, sono alcuni temi suscettibili di tesi di laurea, che peraltro stanno già iniziando a uscire.
Quando, nell'agosto del 1983, scrissi per la prima volta del Cavallo rosso, conclusi con una sorta di sfida: «Mi guardo intorno, mi sforzo di ricordare: non vedo nessun altro autore italiano, in questo secolo, in grado di scrivere un romanzo di questa intensità, capace di compiere simili prodigi».Più di trent'anni dopo (e leggo molto, purtroppo) non mi sono ricreduto.
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