Politica

La guerra ai vitalizi danneggia il ceto medio

Viviamo un'epoca che sta legittimando una sorta di furore pauperista. Ormai chi vuole strappare applausi si presenta dinanzi alla platea sostenendo che toglierà ai ricchi per dare ai poveri

La guerra ai vitalizi danneggia il ceto medio

Viviamo un'epoca che sta legittimando una sorta di furore pauperista. Ormai chi vuole strappare applausi si presenta dinanzi alla platea sostenendo che toglierà ai ricchi per dare ai poveri e, in questo modo, porrà fine alla miseria di tanti. Per giunta, in numerose circostanze, quelli che vengono raffigurati quali fossero Paperon de' Paperoni non sono affatto dei milionari, ma soltanto professionisti di qualità: esponenti del ceto medio che spesso hanno faticato una vita per conseguire quella posizione.

Eppure il populismo di cui si fanno interpreti soprattutto i grillini, con il sostegno della sinistra, sembra proprio volere eliminare quel poco che rimane della borghesia e della piccola borghesia, adottando logiche espropriatrici. Si denunciano le pensioni d'oro senza domandarsi davvero cosa ci sia dietro quello che viene riconosciuto a quanti hanno smesso di lavorare.

Ne è conferma la bagarre scoppiata in merito ai vitalizi dei politici. Dopo che nei giorni scorsi era stato eliminato il taglio delle pensioni per gli ex parlamentari, ora è la Segretaria generale del Senato (Elisabetta Serafin) a tentare di bloccare quei 33 milioni che dovrebbero essere di nuovo consegnati agli ex senatori. E, nel giustificare la propria iniziativa, Serafin cita il presidente della Camera dei deputati, Roberto Fico (dei Cinquestelle), secondo cui questa riduzione dei vitalizi dovrebbe rispondere alla «domanda sempre più forte di equità sociale». A molti risulterà chiaro, però, come in tal modo si contestino le pensioni riconosciute a Cicciolina e ai vecchi tromboni della Prima Repubblica, ma solo per affermare un egualitarismo che non ha giustificazione.

In merito a questi tagli dei vitalizi la controversia dura da tempo, ma il vero problema è che nessuno vuole dire le cose come stanno. E cioè che una cosa sono le super-pensioni di quanti, come i politici, si sono attribuiti da sé emolumenti da favola (e quindi trattamenti previdenziali esageratamente alti), mentre qualcosa di molto diverso sono i trattamenti previdenziali anche elevati di chi ha regolarmente versato all'Inps somme cospicue per decenni. In questo secondo caso, gli stipendi da cui venivano quei versamenti nascevano da logiche di mercato.

Quando i demagoghi parlano di casta e privilegiati, allora, si capisce chiaramente che essi stanno sparando nel mucchio: colpendo il parlamentare che è stato a Roma una vita intera nello stesso modo in cui viene penalizzato il dirigente d'impresa che ha conquistato con il proprio lavoro la sua posizione professionale. Insomma, una cosa è continuare a riconoscere 8.455 euro lordi al mese all'ex ministro Claudio Martelli (questi sono i dati forniti da Mauro Suttora su Huffington Post) e altra cosa è accettare i «contributi di solidarietà», dal governo Monti in poi, che periodicamente colpiscono le pensioni di quanti hanno lavorato una vita versando allo Stato somme consistenti. La logica che ha portato a penalizzare le pensioni più alte (con contributi del 15% sopra i 100mila euro, e via crescendo) non ha altra giustificazione che una forma di risentimento sociale manipolato a fini elettorali.

E il 20 ottobre si attende la sentenza della Consulta sui tagli previdenziali della Finanziaria 2018 previsti sugli assegni più alti.

Per questo motivo non si vorrebbe dovere scegliere tra il cinismo dei politici arroccati ai propri privilegi (e a benefici ben più alti di quelli riconosciuti in ogni altro Paese) e il giacobinismo di quei Masaniello che considerano chi riceve 100mila euro lordi l'anno un capitalista da umiliare, in nome di una strana idea della «giustizia sociale».

Non c'è nulla di equo in tutto ciò, né si può costruire un futuro per la nostra società coltivando idee di questo tipo.

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