Guerra e pace

La visita di Biden a Zelensky in un Paese sconvolto dalla guerra è l'immagine plastica di un Occidente che non lascerà l'Ucraina alla mercé di Putin a tre giorni dalla scadenza del primo anno del conflitto

Guerra e pace

La visita di Biden a Zelensky in un Paese sconvolto dalla guerra, con l'annuncio di un altro mezzo miliardo di dollari in aiuti militari, è l'immagine plastica di un Occidente che non lascerà l'Ucraina alla mercé di Putin a tre giorni dalla scadenza del primo anno del conflitto e alla vigilia della tanto paventata nuova offensiva dei russi. Oggi pure Giorgia Meloni sarà a Kiev per dimostrare la compattezza dell'Europa nel sostegno alla causa ucraina, magari fornendo, se necessario, altre armi e tutto il supporto necessario.

Una posizione chiara che non ha subordinate, che punta a mantenere l'indipendenza di quel Paese e a scoraggiare una nuova politica imperialista da parte del Cremlino. È una linea definita, mai messa in discussione in questi 365 giorni di conflitto neanche di fronte ai sacrifici che i Paesi europei hanno dovuto affrontare come conseguenza dell'embargo a Mosca o ai dubbi che sono sorti nelle opinioni pubbliche dei Paesi occidentali su ragioni, fini e ripercussioni della guerra.

Appunto, la guerra è guerra e non ammette ripensamenti, perché alla forza si risponde con la forza, specie di fronte alle aggressioni. Solo che le democrazie combattono la guerra sempre e comunque perseguendo un orizzonte di pace. Nessuna guerra è perpetua. Né è ammissibile che un conflitto nel terzo millennio possa durare cinque anni come quelli che insanguinarono il cuore del Vecchio Continente il secolo scorso. Sarebbe assurdo, tragico, masochistico. Per cui se in Ucraina si combatte la guerra, è necessario che nelle altre capitali del mondo qualcuno si impegni per la pace. Non è una scelta, è un dovere. Ciò non significa allentare l'appoggio o fare venire meno la solidarietà a Kiev, o, peggio, tradire la causa ucraina. Chi pensasse una cosa del genere sarebbe un pusillanime. Non c'è bisogno di bere vodka per comprenderlo. Ciò va detto a chiare lettere ad un anno dall'inizio di una guerra che ha provocato, azzardando dei conti, più di duecentomila morti e la distruzione di mezza Ucraina.

Si deve combattere la guerra di oggi immaginando la pace di domani. È quello che stanno facendo sotto sotto tutti, al di là della retorica e dell'ipocrisia. E il primo passo è proprio un piano per la ricostruzione - per citare Berlusconi - perché la pace si impone se riesce ad assicurare un domani a chi ha patito o è stato vittima della guerra. Poi, certo, ci sono i territori, l'ambizione di Zelensky di riconquistare il Donbass mentre la Russia schiera altri 300mila soldati. I prossimi tre mesi ci diranno se è un tentativo giusto, se è velleitario o se è solo uno spreco di vite. Perché diciamocelo chiaramente: assicurare l'indipendenza a Kiev, consolidarne la democrazia oggi e domani è il vero obiettivo imprescindibile. Da raggiungere a qualsiasi costo. Il resto deve essere coniugato con due risorse essenziali: realismo e pragmatismo. Nell'ottobre scorso scrissi su questo Giornale che bisognava porsi il problema dell'ingresso dell'Ucraina nella Nato. Un concetto ripetuto qualche settimana fa da un vecchio saggio come Henry Kissinger.

Sarebbe uno strumento per raggiungere, appunto, l'unica condizione non negoziabile: dare la certezza a Kiev di essere una nazione oggi e domani. All'inizio del conflitto, Putin lo aveva messo in dubbio, aveva teorizzato che l'Ucraina era solo un'invenzione di Lenin. Un anno dopo anche lo Zar, a sue spese, ha capito che quella nazione esiste.

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