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I penultimatum per allontanare le elezioni

I penultimatum per allontanare le elezioni

Il primo a usare la carta Quirinale è stato quest'estate Matteo Salvini. Per convincere Silvio Berlusconi a giocare insieme la carta delle elezioni anticipate il leader della Lega ha messo sul tavolo una proposta che non si poteva rifiutare: la conferma di tutti i parlamentari di Forza Italia alle urne e il Colle più alto per il Cav. Argomento che avuto i suoi effetti, visto che da allora Berlusconi è diventato un convinto sostenitore del voto anticipato. «L'unica cosa che mi dispiace - è la frase scettica di maniera di Berlusconi - e non riuscire a fare ai miei figli questo regalo». Sono trascorsi poco meno di due mesi e, specularmente, è stato l'altro Matteo, Renzi, dal palco della Leopolda, ad utilizzare la lusinga della successione a Sergio Mattarella per mettere i leader del Pd, che ogni tanto ventilano il voto in chiave anti-renziana, di fronte alle loro responsabilità e persuaderli che vale la pena di giocare la partita del capo dello Stato in questa legislatura, per non rischiare di regalarla a Salvini nella prossima. «Ho delineato - spiega - l'identikit di un capo dello Stato europeista per spiegargli che sono tutti potenziali candidati meno che io, visto che alla fatidica data non avrò compiuto ancora 50 anni. Riflettano». Naturalmente sono in tanti ad essere chiamati all'appello: da Romano Prodi a Walter Veltroni, a Dario Franceschini. In fondo per tutti sarebbe il coronamento del sogno di una vita. «La mia massima aspirazione - confida Pierdomenico Martino, uomo ombra del capodelegazione dei ministri del Pd - è stare nel gruppo del Quirinale. Se è necessario anche a fare il direttore della tenuta di Castelporziano, magari per girarla a cavallo e contare cinghiali».

Appunto, si parla del Colle per il domani, visto che sull'oggi c'è poco da dire. Si paventano crisi di governo, addirittura elezioni, ma per parafrasare una celebre frase attribuita a Socrate al contrario, si può dire che tanto tuonò che non piovve. Come per un anno fece la maggioranza gialloverde, anche quella giallorossa si avvia a mesi di penultimatum. Ma la coalizione, per ora, è destinata a trovare sempre la quadra. «Il mio obiettivo - ripete quasi con il tono pedagogico ai suoi lo stesso Renzi - non è fare la crisi, ma porre una serie di questioni che delineino l'identità di Italia Viva e potere dire un domani avevo ragione, l'avevo detto». Un atteggiamento che ritrovi anche sul versante grillino. Spiega il sottosegretario all'Economia, Alessio Villarosa: «La polemica serve, soprattutto, a fare sapere all'opinione pubblica quello che avevamo chiesto e che gli altri non ci hanno dato, non certo per aprire la crisi. Tutti si debbono assumere le loro responsabilità».

Per cui, com'è nella tradizione dei governi di coalizione, le trattative saranno estenuanti, voleranno parole grosse, ma almeno per il momento non si arriverà alla rottura: nella bozza di legge di bilancio saranno ritirate dal governo un po' di micro-tasse, ma non si romperà, ad esempio, su «quota cento». È la logica che lo vieta. «Se approviamo la manovra e poi andiamo alle elezioni - si sfoga il capogruppo di Leu, Federico Fornaro - ci prendono tutti e ci portano non al Tso ma direttamente all'asilo Mariuccia. Renzi deve calmarsi, ma il Pd deve puntare sull'immagine della forza responsabile che tiene in piedi il governo, in una logica mitterrandiana». Già, si passerebbe dal tapiro d'oro estivo vinto da Salvini, a quelli invernali da distribuire a Conte, Zingaretti, Di Maio e Renzi: dal suicidio solitario, al suicidio di massa. Ecco perché chi punta sulle urne, a destra come a sinistra, sbaglia i calcoli: dovrebbe affidarsi più a Cartesio che a Nietzsche. Ad esempio, se Zingaretti e Di Maio perdessero in Umbria e in Calabria, a differenza di ciò che teorizza Salvini, le urne sarebbero più improbabili: quali pazzi si consegnerebbero a una sconfitta sicura? Come pure per Zingaretti è pericoloso teorizzare elezioni, magari con Conte candidato premier come pennacchio, solo per liquidare Renzi: se perdesse, cosa probabile, sarebbe lui il primo a pagarne le conseguenze di fronte al suo partito. A meno che non si rivoltasse la ratio, per cui segretario che perde non si cambia.

Tutto questo per dire che al momento le minacce sono solo boutade. Il problema vero si porrà a primavera quando il governo che all'esordio non ha suscitato entusiasmi, che non ha una vera luna di miele con l'opinione pubblica, per sopravvivere dovrà risalire la china: da governo di legittima difesa contro Salvini, da governo nato solo per evitare l'aumento dell'Iva, dovrà diventare adulto e dimostrare di avere una sua politica. E certo che se questo è l'obiettivo, aumentare le pene agli evasori senza diminuire le tasse non è una gran trovata, semmai puro masochismo. Quando c'è uno Stato che arriva a tassare più del 50% dei tuoi guadagni, logica vorrebbe - e torniamo a Cartesio - che, finché non si abbassa la pressione fiscale, si possano aumentare i controlli ma non certo le pene. Altrimenti, per usare un paradosso, si rischia di regalare al supposto evasore l'immagine di Robin Hood che si oppone allo sceriffo di Nottingham. «Ecco perché il futuro del governo - osserva Renzi - è tutto nelle mani di Conte. Io voglio solo un governo vero, vero, vero».

Già, i problemi non riguardano il presente, ma il domani. Tant'è che la cartina di tornasole è anche nel dialogo di Matteo R., ad esempio, con l'area liberaldemocratica di Forza Italia. Alla Leopolda ha fatto capolino Davide Bendinelli, coordinatore azzurro del Veneto, uno dei più corteggiati: «Dibattito interessante su cui riflettere». «I ragionamenti alla Leopolda potrebbero funzionare - osserva l'azzurro Enrico Costa, pallino fisso di Renzi - ma dovrebbero essere corredati da un'appendice sostanziale. Renzi non può chiedermi di votare la fiducia a questo governo, non può chiedere a un garantista di votare la fiducia a Bonafede». La risposta è a stretto giro di posta. «Nessun problema - fa sapere il leader di Italia Viva - non pretendo certo che chi viene voti la fiducia a Conte. Semmai potrebbero votare i nostri emendamenti, se li convincessero, se li considerassero figli di una cultura liberale. A me non interessa l'oggi, ma il domani».

Appunto non c'è bisogno di concedere la fiducia al premier di oggi, ma magari, se Conte non diventerà adulto, prometterla in un possibile domani a - uno che somigli a - un Draghi.

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