Meno tasse, più welfare e debiti sotto controllo, tutto questo con consumi, produzione e investimenti stagnanti. È un rompicapo impossibile da risolvere, ma è quello che Salvini, Di Maio e Conte stanno mettendo in fila come ricetta anti crisi. È chiaro che stanno improvvisando. Che sta succedendo? La realtà è che non c'è più un contratto di governo. Il premier non è più il garante del patto e i leader dei due partiti di maggioranza non hanno una politica economica condivisa.
Salvini mette sul piatto la flat tax, Di Maio rilancia con il salario minimo, Conte promette all'Europa che non ci saranno colpi di testa. Il sospetto è che nessuno stia ancora pensando seriamente alla manovra di ottobre, ma tutto questo sia solo un corpo a corpo per definire le gerarchie: chi comanda e chi fa da gregario. Non è però solo finzione. Salvini incarna in questa sfida l'Italia che si vuole liberare da un fisco asfissiante e chiede risorse per scongiurare il fallimento. È il mondo della piccola e media impresa, spaesato, spaurito, che non ha più il coraggio di investire e da tempo sogna una rivoluzione fiscale. Quello che si aspettano è un ritorno di speranza, un segno di discontinuità, un sospiro di fiducia. Di Maio promette un salario minimo di nove euro lordi l'ora per tutti i lavori atipici e si propone come il paladino dei nuovi proletari, senza prole, giovani, precari, sottopagati, senza tutele e abbandonati dalla sinistra. È una fascia affine a quella del reddito di cittadinanza. Quello che invocano è uno straccio di certezza, un paracadute e un grammo di futuro. Sono due pezzi di Italia con interessi diversi e spesso divergenti. Non è mai stato facile trovare un equilibrio. È il dilemma classico di qualsiasi politica economica, che diventa drammatico in lunghe stagioni di crisi. È l'Italia di chi chiede meno tasse che si confronta con quella che si aspetta più welfare. Come metterli d'accordo? Conte in questo gioco deve interpretare la parte più scomoda: deve fare in modo che nessuno si illuda. È l'uomo costretto a stare con i piedi per terra, che non ha promesse elettorali da mantenere e sa che i margini di manovra sono ridottissimi. Il suo compito sarà convincere gli altri paesi europei che dell'Italia ci si può fidare, che una procedura d'infrazione rischierebbe di far crollare uno Stato «troppo grosso per fallire». Conte è il tutore delle grandi imprese, delle banche, di chi teme di scivolare in un vortice di sfiducia con conseguenze perfino difficili da immaginare. È da qui che nascono i rapporti sempre più difficili tra il premier e i suoi vice, che si sono ritrovati anche spiazzati dal nuovo vestito che l'avvocato degli italiani ha cominciato a indossare. Il guaio è che in questo gioco a tre rischia di diventare ogni giorno più complesso, con troppe variabili e di difficile lettura per gli osservatori esterni. Quello che davvero spaventa l'Europa e i mercati sono le traiettorie imprevedibili delle scelte politiche italiane. Non solo non c'è chiarezza, ma è come avere a che fare con un personaggio con troppe personalità.
Prima o le tre anime del governo arriveranno alla resa dei conti. A quel punto si vedrà se a vincere la partita sarà Salvini o Conte o se Di Maio preferirà lasciare il tavolo, magari trovando il coraggio di andare al voto.Vittorio Macioce
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