Scena del crimine

"Io stesso temo il mio nome". Il mostro che non fece mai del male

Omicidi, stupri e violenze: la storia del Mostro di Roma e di Gino Girolimoni

"Io stesso ho paura del mio nome", quel "mostro" che non fece mai del male

Negli anni ’20 in Italia si intrecciarono due storie ormai quasi dimenticate: quella di cronaca del Mostro di Roma e la vicenda giudiziaria di Gino Girolimoni. Che fu inquisito come Mostro, ma non fu il Mostro. Il quale, in realtà, non fu mai trovato, ma a un certo punto smise di colpire.

Girolimoni, romano classe 1889, di mestiere era un mediatore per infortuni sul lavoro, ma si occupava anche di fotografia. Nel 1927 fu arrestato con l’accusa di diversi omicidi, stupri e una molestia sessuale su una minorenne - quest’ultima fu la causa scatenante della sua identificazione con il Mostro. Ma non aveva mai commesso nulla del genere, anche l’accusa di molestie fu frutto di un’incomprensione: una giovanissima domestica aveva affermato di aver ricevuto da lui proposte oscene, ma in realtà pare che Girolimoni cercasse di approcciarsi alla ben più adulta, sposata e aristocratica signora da cui la ragazza era a servizio.

Gli omicidi e i crimini del Mostro di Roma

Il Mostro di Roma fu un assassino che tra il 1924 e il 1927 commise le violenze sessuali e gli omicidi di cui fu poi accusato Girolimoni. E che, paradossalmente, lasciò di sé numerose, sebbene presunte, tracce che non permisero mai di acciuffare il vero colpevole. Le vittime del Mostro, che subirono violenze sessuali, strangolamenti e soffocamenti, furono diverse. La prima fu Emma Giacomini di 4 anni e mezzo. Fu rapita il 31 marzo ’24 insieme al fratellino che venne ritrovato nei pressi di un cinema. Nelle ore successive venne ritrovata anche lei, con lesioni ai genitali e al collo, come avesse subito un tentativo di violenza e strangolamento.

Poi fu la volta di Bianca Carlieri, detta la Biocchetta, di 3 anni e 8 mesi, che fu rapita e uccisa il 4 giugno ’24. Seguirono Rosina Pelli, 2 anni e mezzo, rapita e uccisa il 24 novembre ’24, Elsa Berni, 6 anni, rapita e uccisa il 30 maggio ’25, Celeste Tagliaferri, 17 mesi, rapita il 26 agosto ’25, Elvira Colitti, 6 anni, rapita il 12 febbraio ’26, e Armanda Leonardi, 5 anni, rapita e uccisa il 12 marzo ’27.

Il caso Girolimoni

L’opinione pubblica fu chiaramente sconvolta da questa spirale di violenza, ma arrivò anche a interrogarsi sulle proprie abitudini: le bambine furono rapite perché giocavano da sole per strada, cosa che i genitori dell’epoca permettevano ampiamente. Ne fecero le spese tre uomini. Il primo fu Francesco Imbardelli detto Giggione, 32enne affetto da una malattia mentale, che si autoaccusò di uno degli omicidi. Giggione però aveva un alibi e fu internato, anche a causa delle varie versioni fornite, al manicomio di Roma. Ci fu poi il caso del vetturino Amedeo Sterbini che, accusato dagli abitanti del quartiere di essere il Mostro, ingerì acido muriatico lasciando due lettere in cui affermava la sua estraneità ai delitti.

E poi c’è naturalmente Girolimoni. Una premessa è d’obbligo per comprendere una delle ragioni per cui l’uomo fu inizialmente inchiodato dagli inquirenti: la criminologia dell’epoca era basata sulle teorie di Cesare Lombroso, oggi ampiamente confutate. Per cui inizialmente la polizia cercò uomini che presentassero deformità o profili che suggerissero problemi di salute mentale, o addirittura cinesi: era impensabile per l’epoca che il colpevole di questi crimini fosse qualcuno dall’apparenza assolutamente normale. O addirittura elegante, come suggerivano alcuni testimoni dei rapimenti.

Girolimoni assommava entrambe le caratteristiche cercate. Era un uomo elegante, che ci teneva al lusso. Possedeva una bella auto, un guardaroba diversificato e in casa sua erano state trovate fotografie che lo ritraevano con diversi travestimenti, oltre che vari scatti di bambine e tante caramelle: tanto bastava a suggerire che in effetti fosse lui il Mostro che cercavano. Alcune coincidenze non mancavano: dei testimoni avevano parlato di un uomo con accento veneto e Girolimoni aveva vissuto in quella regione, era stata trovata in casa sua una foto che ritraeva al contempo il punto esatto di un rapimento e del ritrovamento di una delle vittime, possedeva biancheria con le proprie iniziali, simile a quella trovata sul luogo del delitto (ma le iniziali differivano). In più era di padre ignoto, cosa che per l’epoca equivaleva quasi a un’ammissione di colpa. Tuttavia i giudici demolirono tutte le prove, anche le testimonianze di chi disse di aver riconosciuto Girolimoni forse per intascare la taglia di 50mila lire sul Mostro, e l’8 marzo 1928 il fotografo venne assolto per non aver commesso il fatto.

Chi fu l’assassino?

A credere da sempre all’innocenza di Girolimoni è un funzionario di polizia, Giuseppe Dosi, che puntò il dito su un altro presunto colpevole. Si trattava di Ralph Lyonel Bridges, pastore anglicano che venne fermato a Capri nella primavera del ’27 con l’accusa di atti di libidine su una bimba di 9 anni. Ma Bridges non c’entrava: non parlava così bene l’italiano, avrebbe mai potuto entrare in confidenza e farsi seguire da tutte quelle bimbe romane, anche con la promessa di dolci e caramelle?

In buona sostanza, il Mostro di Roma non è stato mai trovato, ma se ne può stilare un profilo ben preciso, sebbene la descrizione fisica fornita dai testimoni cambi da persona a persona. Si tratta sicuramente di un uomo che all’epoca aveva 35-40 anni, che conosceva il territorio nel quale si muoveva, ossia alcuni vicoli popolari di Roma non distanti da quello che oggi è il Vaticano. È stato un serial killer probabilmente disordinato, anche se è difficile dirlo solo in base ai dettagli ritrovati sulle scene del delitto. È molto probabile che avesse problemi a relazionarsi con le donne: da qui la sua pulsione, la furia violenta e omicida nei confronti delle bimbe.

Sicuramente oggi sarebbe stato fermato molto prima, grazie al tracciamento degli smartphone in possesso anche dei bambini e grazie alle telecamere di sorveglianza che sono in ogni dove. E forse è anche la ragione per cui, dopo di lui, questo tipo di crimini sono stati meno numerosi. In più sono cambiate le abitudini delle persone, dato che le famiglie difficilmente consentono a bambini così piccoli di giocare per strada. Come in una similitudine usata da Andrea G. Pinketts in un suo racconto, i bambini devono essere tutelati dalle automobili e dai “lupi”. Ma naturalmente il Mostro di Roma non era un lupo, era un uomo, anche se ancora senza volto.

Tra libri e film

L’influenza culturale del caso Girolimoni è stata fortissima e rivela perché oggi l’informazione corretta in Italia si fondi su determinati meccanismi come il diritto di rettifica, che deve seguire spazi e regole sulla stampa per essere efficace. Nel caso di Girolimoni non lo fu e potrebbe essere la ragione per cui questo nome è diventato sinonimo di pedofilo, oppure venga usato per definire qualcosa di vago dal punto di vista erotico, come vizioso o dedito a rapporti non eteronormativi. “È arrivato Girolimoni”, dice Alessandro Haber in “Parenti serpenti” (1992) quando rivela ai suoi famigliari di essere omosessuale, cacciando via i nipotini dalla stanza.

Il fenomeno viene rimarcato anche nel film “Girolimoni, il mostro di Roma” con Nino Manfredi nel ruolo del protagonista. Nelle scene in cui il personaggio di Manfredi è ormai fuori dal carcere deve infatti scendere a patti con il fatto che le persone, pur non riconoscendolo per strada, utilizzino il suo nome con un'accezione negativa. Il merito della pellicola, che contiene diverse parti fantasiose, è quella di restituire allo spettatore una parte di verità, dai sospetti sul sacerdote inglese, fino a una consapevolezza che Girolimoni aveva in effetti, come riporta una citazione attribuita all’uomo che si può leggere sul volume “Un mostro chiamato Girolimoni” di Sanvitale e Palmegiani: “Persino io ho paura ancora di pronunciare il mio nome. Ho paura di dire: io sono Girolimoni. Mi fossi almeno chiamato Rossi, Franceschi, De Rosa, Esposito. Ma Girolimoni! Un cognome non comune”.

Il libro di Fabio Sanvitale e Armando Palmegiani è scritto in forma dialogica, come se i due autori stessero facendo con il lettore un brainstorming sulla possibile soluzione del caso, soluzione che non arriva alla fine, perché non c'è.

La vicenda di Girolimoni ha affascinato e spinto a scrivere in molti, da Damiano Damiani che fu il regista del film con Manfredi a Giuseppe Dosi che si occupò delle indagini fino a Federica Sciarelli con Emmanuele Agostini, che ha realizzato un volume la cui scrittura, evocativa e letteraria più che cronachistica, riesce a condurre il lettore mano nella mano con le piccole vittime.

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