«Abbiamo raccolto 2.407 dubbi. Poi ci siamo fermati». La linguista Valeria Della Valle parla anche per il collega Giuseppe Patota: insieme hanno selezionato gli errori e le incertezze più comuni, quando si tratta di scrivere o di parlare. I 2.407 dubbi che risolvono in Ciliegie o ciliege? (Sperling & Kupfer), manuale a uso immediato, dalla A alla Z, per esempio: si dice aerato o areato? Aerato. Bigie o bige? Bigie. Congegnamo o congegniamo? «Tutt’e due al presente indicativo, noi congegniamo al presente congiuntivo». Un email o una email? «Tutt’e due». È così che sorgono i dubbi, che possono poi degenerare in errori: «La nostra lingua spesso è caratterizzata dalla doppia possibilità, a volte anche tripla» spiega la professoressa. Non è che è un alibi? «Ma no, è la verità. Se no e sennò, saluberrimo e salubrissimo, scancellare e cancellare». Non è l’unico problema: «L’italiano per tradizione ha separato spesso lingua scritta e parlata. Perciò anche il concetto di errore varia. Se pensiamo che fino a Manzoni si scriveva: “Io andava, io pensava”...». Tutto contribuisce a confondere: «C’è chi ancora si corregge se usa lui anziché egli. Ma è una distinzione arcaica».
I 2.407 dubbi e sviste arrivano da compiti degli studenti (universitari), errori agli esami, domande degli altri colleghi (sempre professori). Per dire che succede a tutti, e che succede di tutto: c’è davvero chi scrive «eccezzione?». «È uno degli errori più frequenti. Dovrebbe essere assimilato dalle elementari, ma non è così. Perché nella pronuncia tendiamo a dire la doppia zeta: e il dubbio viene». Il punto è anche quello: «Tendiamo a scrivere come pronunciamo: l’errore riproduce spesso un suono, o è una variante tramandata nella lingua regionale». Per esempio, per le ciliegie del titolo valgono entrambe le versioni: la «i» non si sente.
Altri inciampi diffusi sono: un po’ con l’accento anziché con l’apostrofo; la confusione fra accenti gravi e acuti, in parole come è, perché («molto comune e difficile da correggere»); «piuttosto che» utilizzato impropriamente al posto di «o» («una moda nata fra Piemonte e Lombardia, quando si enumerano una serie di cose»); i verbi «difficili», come i congiuntivi o il passato remoto; l’uso del presente al posto del futuro, «ammesso nel parlato informale, ma non nello scritto». Ci sono errori «regionali»: al Nord «non si pronunciano le doppie», a Roma «non usano bene le consonanti, per esempio si pronuncia “borza”», al Sud c’è un ritorno al familiare «voi» al posto del lei («ci sono studenti che lo usano all’esame, io li correggo e loro: “Scusate”»). Ci sono participi insidiosi: cernere (cernito), dirimere (non esiste...), incombere e soccombere (idem), mentre un preside di facoltà della Sapienza pare sia crollato su esigere (avrebbe «esigito» anziché «esatto»).
Un erroraccio che non sfugge alla gogna pubblica è dimenticare il congiuntivo: «Casini, che di solito parla bene, una volta disse: “Vorrei una scuola che boccia”». Il ministro Fornero «ha ragione, non bisogna dire “la” Fornero», però «quando ha detto “una paccata di miliardi” ha usato una parola che non esiste». Poi ci sono le cattive abitudini: non errori veri, ma «espressioni di plastica» come «e quant’altro, come dire, chiaramente, tra virgolette: avvolgono il discorso nel domopak». Esempio: «Simona Ventura dice “insomma” ogni tre parole: è un italiano banale».
Quello che è certo - dice Della Valle - è che «l’errore, specialmente nel discorso in pubblico, è ancora un’onta: ci si vergogna». Non importa che di solito si sia impeccabili: «Ne basta anche uno solo». Chi si sente tranquillo, scagli la prima pietra.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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