L'analisi del G

L'occasione persa a Rafah e gli errori di Netanyahu

Settimane fa, l'esercito israeliano ha elaborato un piano perfettamente in grado di concludere la guerra a Gaza

L'occasione persa a Rafah e gli errori di Netanyahu

Settimane fa, l'esercito israeliano ha elaborato un piano perfettamente in grado di concludere la guerra a Gaza. La strategia consiste nello spingere contemporaneamente le forze di terra nel segmento rimanente di Rafah della Striscia per distruggere gli ultimi miliziani di Hamas, aprendo al contempo una via di evacuazione sicura per consentire ai palestinesi sfollati di tornare a casa, a Gaza City e Khan Yunis. Ansiosa di vedere la fine dei combattimenti, la Casa Bianca di Biden era disposta ad approvare un'offensiva limitata, a condizione che gli israeliani continuassero a combattere senza il supporto di bombardamenti aerei, tranne in rari casi, e continuassero a ricorrere solo sporadicamente alla loro artiglieria.

All'apparenza, tutto era pronto; ma poi non è successo nulla. Ora la guerra è in stasi, non prosegue né si risolve, mentre ieri Biden ha di fatto escluso qualsiasi sostegno a un grande assalto di terra.

Perché Israele ha perso la sua occasione? In parte è stato a causa della «frizione», l'«attrito» dato dall'insieme delle resistenze che rendono complessa ogni guerra, con grande frustrazione di tutti gli strateghi. Come articolato per la prima volta da Carl von Clausewitz, l'attrito è composto da molti impedimenti separati. Alcuni sono davvero banali - come una gomma bucata alla vigilia di una gita in famiglia -, mentre altri rappresentano una minaccia fondamentale per qualsiasi sforzo bellico. Nel caso di Israele, gli impedimenti erano sostanziali, dagli ufficiali addetti ai rifornimenti che sostenevano di aver bisogno di più tempo per fornire cibo e acqua lungo il percorso di evacuazione, ai ritardi incessanti causati dai negoziati del Qatar sugli ostaggi di Hamas, che sono andati avanti e indietro senza trovare una soluzione. Nel frattempo, si teme che non tutti i tunnel sotto Gaza City e Khan Yunis siano stati trovati e distrutti. Più volte, quando sembrava che il giorno fosse arrivato, l'individuazione di nuovi tunnel ha causato ulteriore ritardo. Proprio questa settimana, c'è stato un grave scontro ad Al Shifa, dove erano state combattute le prime battaglie in ottobre.

Ma queste sono le solite traversie della guerra. Però c'è un'altra fonte di attrito molto più significativa, situata nel cuore della leadership israeliana. Quando ho chiesto a un ufficiale del quartier generale dell'Idf perché fosse passato così tanto tempo senza che Rafah venisse attaccata, la sua risposta è stata inaspettata: «Netanyahu non è Ben Gurion». Il paragone è impegnativo: Ben Gurion non è stato solo il primo ministro di Israele, ma il suo fondatore spirituale, l'ostetrica di una nazione nata sotto assedio. Quando dichiarò l'indipendenza il 15 maggio 1948, scatenò l'invasione di quattro Stati arabi, ognuno meglio equipaggiato delle sue milizie clandestine ebraiche, per le quali anche solo ogni fucile era prezioso e l'artiglieria un sogno impossibile. Con quell'atto, Ben Gurion ignorò gli avvertimenti americani e britannici che la guerra sarebbe finita in un massacro e andò avanti da solo, dimostrando fiducia nello spirito combattivo del suo giovane Paese e convinzione nelle proprie capacità di leadership.

Sono queste qualità che mancano a Netanyahu. Il quale è stato un politico molto deciso, che ha avviato Israele sulla strada della tecno-prosperità come ministro delle Finanze rivoluzionario due decenni fa. È stato anche un soldato altrettanto risoluto, che ha prestato servizio per cinque anni - invece dei due e mezzo obbligatori - nella principale forza di commando israeliana, in decine di azioni di combattimento. Tuttavia, non è stato un leader militare decisivo. La sua traiettoria politica è una storia di potere in declino, sostenuta da elementi sempre più marginali e discutibili all'interno della politica israeliana.

Anche se l'attuale governo è sostanzialmente nuovo, dato che il mandato è iniziato solo nel dicembre 2022, questo è il suo 17° anno come premier. Un incarico che ha ricoperto due volte in passato. Di conseguenza, è visto da moltissimi israeliani - così come dai politici di Stati Uniti ed Europa - con quel particolare disgusto riservato ai leader che rimangono in carica anche quando le loro capacità avvizziscono. Ha ottenuto questo risultato attraverso la contrattazione politica, formando governi di coalizione a ripetizione, ognuno dei quali comprendeva più estremisti del precedente. La rappresentanza proporzionale ha da tempo aperto il Parlamento israeliano ai partiti ultrareligiosi e di estrema destra, ma serve un primo ministro particolarmente spregiudicato per farli entrare nel governo. Nel disperato tentativo di resistere, il pragmatismo politico di Netanyahu si è trasformato in pura convenienza.

Netanyahu, in altre parole, è disposto a portare al governo chiunque, se costui gli consente di rimanere al potere. Ed è così che Israele si è ritrovato guidato dall'attuale coalizione, che ha dato il potere politico a figure come Itamar Ben-Gvir, un ultranazionalista il cui sostegno sciovinista ai coloni in Cisgiordania rasenta il messianico e che ha chiesto la piena occupazione di Gaza. Queste fantasie non hanno alcuna influenza sulla pianificazione militare - i generali israeliani sono semmai di sinistra.

Ma sconvolgono la maggioranza moderata in patria e servono alla propaganda anti-israeliana all'estero, relegando Netanyahu a mero fantoccio e spaccando la coalizione di sostegno internazionale a Israele.

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