Cultura e Spettacoli

"Macché scienza, il mio sogno era il jazz"

Piero Angela, scomparso oggi a 93 anni, rivelò per la prima volta in questa intervista del 2001 la sua grande passione per la musica jazz

"Macché scienza, il mio sogno era il jazz"

Ripubblichiamo l'intervista che Piero Angela, scomparso oggi a 93 anni, rilasciò a Paolo Giordano nel 2001. Qui per la prima volta il celebre divulgatore scientifico parlò della sua grande passione per la musica jazz. Fino ad allora Piero Angela non aveva mai rivelato questo aspetto della sua vita.

Niente da fare: lo riconosci al volo, appena filtrato dal telefono. Piero Angela parla d’un soffio, seguirlo è un incanto, ad anticiparlo neppure provi. Più che parole, le sue sono lancette: saltano sempre in avanti, lievi lievi, s’acquetano appena ed ecco spiegati i perché e i percome. Proprio come a Quark, sembra di essere davvero in onda: tempo un istante e si rimane a bocca aperta. Accadrà anche ora, vedrete. Il quark di Piero Angela, la particella infinitesimale nell’infinito dei suoi interessi è il jazz.

Proprio così, vien da stupirsi: le partiture senza catenacci, lo stile libero dell’invenzione sono il suo cromosoma musicale, le suona e se le tiene nell’animo da mezzo secolo o giù di lì. A mezza voce, però, senza calcare mai i toni. E non lo farà neppure a marzo, quando presenterà - pensate un po’ - l’Eurojazz Festival di Ivrea, programma ancora da definire ma qualità garantita, visto che da due decenni è un’adunata di lusso per intenditori. Che anche questa volta s’aggiusteranno lo spirito inseguendo concerti e assoli, ma prenderanno pure appunti molto speciali. Oltre a introdurre lo spettacolo, Piero Angela, torinese del Ventotto, dottore quattro volte honoris causa per meriti scientifici, terrà anche un seminario sull’improvvisazione jazz e immaginatelo a spiegarsi lieve, senza deragliare mai nelle esagerazioni. Cioè swingando con i concetti, magari inalberandosi di entusiasmo ma lasciando alle parole soltanto lo spartito inflessibile della tecnica.

Allora, è proprio una sorpresa: lei su di un palco jazz.
«Me lo hanno chiesto il direttore artistico Sergio Ramella e Gianni Basso, amico e sassofonista squisito: ho accettato con un po’ di fatica. O meglio: di resistenza».

C’è da capirlo: impegni tivù?
«Macché, non ho mai voluto rendere troppo pubblico questo lato della mia vita, anche se, qualche volta, alla fine mi lascio andare. Difficile
resistere».

A che cosa?
«Alla passione, il jazz è la mia passione sin da ragazzo».

Immediato dopoguerra, allora, tempo di Glenn Miller e delle big bands americane.
«Appunto. Ma qui c’era poco da ascoltare, perciò compravo dischi per corrispondenza in un negozio di Parigi. Mi arrivavano a pacchi e li
ascoltavo con gli amici. Era emozionante, c’era un’energia incredibile».

Che si fermava solo sul giradischi?
«No, suonavamo anche molto tra di noi. Avevo un trio: io al pianoforte più un basso e una batteria. Ma è accaduto decenni fa».

E ora?
«Penso sempre di ritrovarmi con qualcuno davanti agli strumenti, ma poi tutto rimane una fantasia. E dire che il jazz è fondamentale per crescere,
un buon maestro di vita. Infatti, da ragazzo, avevo voglia di emulare i maestri che ascoltavo sul vinile».

Risultati?
«Lo confesso: ho acquisito una tecnica sorprendente».

Da autodidatta?
«Non proprio. Avevo già studiato al Conservatorio. Ma l’insegnamento spesso scoraggia i giovani e così è accaduto anche a me. Bisognerebbe distinguere tra chi vuole fare il concertista e chi vuole solo divertirsi».

Lei?
«La seconda ipotesi: perciò allora, quando ero un ragazzino, smisi di studiare. Ma in casa rimase il pianoforte, l’ho rispolverato solo qualche anno dopo, quando dalla Francia iniziarono ad arrivarmi i pacchi con i dischi del grande Benny Goodman, di Gene Krupa e Lionel Hampton. Tempo dopo sono tornato dalla mia professoressa: è rimasta a bocca aperta, suonavo in modo diverso da prima. E meglio, molto meglio».

Perché non continuare, allora?
«L’ho fatto».

Da professionista, s’intende.
«La mia vita ha preso altre strade. Per tredici anni, dal 1955 al 1968 sono stato corrispondente per la Rai da Bruxelles e poi da Parigi: ho perso tutti i contatti con l’ambiente».

Ma non la passione.
«Se qualcosa non gira, metto su un disco e inizio a suonare seguendo la musica».

Pianista preferito?
«Oscar Peterson. Ho avuto la fortuna di conoscerlo: gli ho stretto quella enorme mano.

Una vera emozione».

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